La Sentenza della Consulta non risolve il problema del congedo obbligatorio di paternità, ma conferma che del ruolo paterno c’è comunque un bisogno estremo
“La lavoratrice, madre intenzionale in una coppia di donne risultanti genitori nei registri dello stato civile, ha diritto al congedo obbligatorio di paternità “, la sentenza numero 115 della Corte Costituzionale è stata resa nota poche ore fa e dichiara costituzionalmente illegittimo l’articolo 27-bis del decreto legislativo numero 151 del 2001 nella parte in cui non riconosce il congedo di paternità obbligatorio a una lavoratrice, genitore intenzionale in una coppia di donne risultanti genitori nei registri dello stato civile. La sentenza in un certo senso sembra omologare il ruolo e le prerogative della madre intenzionale a quelle paterne. Non è solo una questione di lessico.
Il profondo cambiamento sociale e culturale in cui siamo immersi genera spesso un malessere diffuso sul piano psicologico oltre che fisico. Coinvolge a pieno titolo la famiglia moderna, che non di rado si sente smarrita davanti a modelli emergenti che stravolgono categorie ritenute valide per secoli. La presenza del nucleo fondativo della famiglia, formato dal padre e dalla madre, requisito essenziale del far famiglia, sia per la generazione dei figli che per la loro cura e la loro formazione, ha retto l’urto di secoli e di cambiamenti epocali, senza essere messo in discussione.
Ma il XXI secolo sta frantumando certezze e tradizioni, e con la spinta di una rivoluzione tecnologica sempre più accelerata permette di fare cose impensabili solo fino a pochi anni fa. Per esempio, che due donne possano avere un figlio e dichiararsi madri nello stesso modo e a tutti gli effetti. Ma ancora oggi la dimensione genitoriale di una coppia di persone dello stesso sesso crea dubbi e perplessità, tutt’altro che risolte.
Nonostante ci sia un vasto movimento di opinione che intende equiparare una coppia omogenitoriale con una coppia eterosessuale, un ancor più vasto movimento di opinione tende comunque a sottolineare le differenze che permangono tra due modelli, profondamente diversi. Ma di tutto questo nella sentenza della Corte non c’è traccia. Per la Corte la sostanziale identità di una coppia genitoriale omosessuale e di una coppia eterosessuale è ormai un fatto acquisito, su cui non c’è bisogno di tornare e di riflettere, anche quando emergono nuovi problemi, come ad esempio quello del congedo obbligatorio di paternità.
Per questo vale la pena soffermarsi ad analizzare quest’ultima sentenza della Corte che in un certo senso, dichiarando costituzionalmente illegittimo un decreto di 25 anni fa, mostra fino a che punto siano cambiate le condizioni in cui si forma una famiglia, rendendo uguali modelli tutt’altro che uguali. Ad una prima lettura sembra che la sentenza ribadisca un fatto di stretta giustizia: se in una famiglia omosessuale entrambe le donne si fanno carico a pari titolo della cura del bambino, è giusto che godano delle stesse agevolazioni, dal momento che si assumono le stesse responsabilità. Eppure, ciò è vero solo fino ad un certo punto.
La questione era stata sollevata dalla Corte d’appello di Brescia, che aveva ritenuto discriminatoria la disposizione che consente soltanto al padre di usufruire del congedo di paternità obbligatorio, pari a 10 giorni di astensione dal lavoro, retribuiti al 100%, escludendo, quindi, dal beneficio la “seconda madre”, nel caso in cui la coppia di genitori sia formata da due donne riconosciute entrambe come madri dallo Stato italiano, perché iscritte nei registri dello stato civile. La Corte costituzionale era già intervenuta in merito a questo punto, dichiarando che lo status di maternità dipendeva solo da un fatto amministrativo: essere iscritta nei registri di stato civile. E già questo approccio della Consulta rivela molte ombre e accantona frettolosamente questioni non risolte.
La Corte, con la sua sentenza di oggi, ha ritenuto irragionevole la disparità di trattamento tra coppie genitoriali composte da persone di sesso diverso e coppie composte da due donne riconosciute come genitori di un minore nato attraverso tecniche di procreazione medicalmente assistita. In realtà la differenza tra le due coppie non la fa la PMA, perché anche una coppia eterosessuale può legittimamente ricorrere alla PMA. La differenza è proprio nella diversità sessuale: due madri dello stesso sesso non sono la stessa cosa di un padre e una madre. Sembra evidente, ma la Corte non lo considera tale.
Per questo non basta affermare, sempre come fa la Corte, che le due donne, condividendo uno stesso progetto di genitorialità, hanno assunto, come la coppia eterosessuale, anche sul piano giuridico gli stessi doveri, essenziali per rispondere alle esigenze del figlio. La Consulta, infatti, ribadisce che la sentenza risponde all’interesse del minore e che il ruolo della madre biologica e quello della madre intenzionale sono sostanzialmente uguali, anche se poi attribuisce ad una delle due i diritti del congedo paterno obbligatorio. Immaginando in questo modo di abolire possibili discriminazioni, mentre in realtà il congedo per maternità dura cinque mesi ed è retribuito all’80% .
Il punto però è che la norma consente al padre di usufruire del congedo di paternità obbligatorio, pari a 10 giorni di astensione dal lavoro, retribuiti al 100%, e quindi in realtà compie una vera e propria discriminazione. La madre intenzionale avrà 10 gg di congedo obbligatorio, in analogia con il congedo paterno, mentre la madre biologica usufruirà di un ben più lungo congedo di maternità. Ad una tocca il diritto di una astensione dal lavoro di ben altra portata, mentre l’altra dovrà accontentarsi della decina di giorni previsti per il padre.
Il paradosso è che comunque si tratta di un congedo “paterno”, per cui quel ruolo cancellato nel momento di elaborare un progetto genitoriale condiviso, torna ad imporsi imperativamente per godere dei giorni di congedo retribuiti. Il termine paterno, lessicalmente cancellato nella coppia omosessuale, si impone all’attenzione della coppia che non intende rinunciare a ciò che considera un diritto e non un privilegio. Forse la Corte avrebbe dovuto trovare un diverso titolo per questo tipo di congedo nelle coppie omosessuali, perché posto così sembra una contraddizione in terminis.
La discriminazione non è di poco conto. Alla madre biologica la gestione del tempo di famiglia concederà spazio e tempo per la cura del bambino in condizioni di emergenza, mentre l’altra, nella logica del congedo paterno, dovrà limitare il suo tempo di congedo, non potendo far fronte a eventuali criticità.
Nell’esperienza comune il tempo delle madri non è uguale al tempo dei padri; potendo, in alcuni casi, contare su di una maggiore flessibilità, nonostante i confini ben marcati del tempo di lavoro. Il riferimento al congedo paterno nel caso delle coppie dello stesso sesso pone le donne davanti a nuovi tipi di interrogativi, a nuovi modelli di suddivisione dei tempi di cura e non basteranno i dieci giorni retribuiti al 100% a fare chiarezza.
Questa sentenza mentre sembra risolvere delle ingiustizie temporanee apre la strada a riflessioni molto più complesse sui ruoli delle due donne nella vita di famiglia di una coppia omosessuale. C’è una considerazione di base molto importante: non si può rendere uguale ciò che è diverso, e non si possono applicare tout court norme pensate per coppie eterosessuali con distinzioni di ruoli e di approcci maturati e consolidati con il tempo, a coppie omosessuali, in cui la storia è tutta da scrivere e richiederà nuove categorie e nuovi criteri. Anche sul piano lessicale.
Parlare di congedo obbligatorio di paternità è del tutto inadeguato in una coppia omosessuale femminile, anche la lingua ha le sue regole e vanno rispettate. Non può essere riesumato il ruolo paterno solo per avere qualche giorno di congedo in più…
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