Gli scout mi hanno insegnato che la buona azione è quella che si fa ma non si dice. Per questo, come ho già scritto, mi infastidiscono le dichiarazioni di un certo “commercio soccorrevole”, che ama presentarsi al pubblico come se facesse assistenza sociale invece di mirare – come è legittimo e giusto – a una sana ricerca di profitto. Trovo ridicolo travestirsi per apparire diversi da quello che si è. Si, certo, sono i meccanismi del marketing che ben conosciamo. Ma mi pare – posso sbagliare – che la tendenza sia frutto di un mal interpretato concetto di responsabilità sociale d’impresa, che spinge taluni portatori di interesse a comunicare in modo sempre più spesso distorsivo e autoreferenziale. C’è tanto, troppo plateale impegno nel dire al consumatore: “Guarda come sono bravo, buono, solidale, sostenibile”.
Il principio posto alla base della deduzione è elementare: “Io tengo i prezzi bassi e quindi io sono vicino a te e alle famiglie”. In effetti il prezzo basso è da sempre la variabile decisiva nella concorrenza, soprattutto tra supermercati, che si strappano i clienti attraverso offerte speciali, 3×2, promozioni e così via. Ma questa è normale competizione nel mercato, non ruolo sociale. Nel mercato nessuno regala nulla. Lo sapeva bene Robert Reich, economista statunitense, segretario al Lavoro durante la presidenza di Bill Clinton, quando nel volume Supercapitalismo (2008) esprimeva forti critiche rispetto al modello fondato sulla concorrenza di prezzo con cui si stava sviluppando il mercato globale.
La Cina diventava fabbrica del mondo, le imprese delocalizzavano per produrre a basso costo e Reich guardava perplesso alla dinamica: “Come consumatori e investitori puntiamo a fare grandi affari – scriveva –, ma come cittadini disapproviamo le molte conseguenze sociali che ne derivano”. Reich si riferiva all’estendersi della precarietà lavorativa (per altro oggi all’ordine del giorno in Italia), all’attenuazione progressiva dei diritti del cittadino e alle implicazioni di ordine sociale e ambientale. “Una concorrenza centrata sul prezzo – aggiungeva – si sposta dai cittadini e dai lavoratori verso i consumatori, minando una parte assai importante dei diritti per i quali si è a lungo lottato. Per attrarre i consumatori si abbassano i prezzi e le inevitabili conseguenze ricadono sui lavoratori”, che ne pagano il prezzo. Insomma: “Il consumatore vince, ma il cittadino perde”, concludeva l’economista statunitense.
Oggi in Italia il lavoratore vive una fase di compressione drammatica del potere d’acquisto: gli stipendi tra il 2019 e il 2020 hanno registrato una diminuzione piuttosto importante, che ha riportato i salari al di sotto dei livelli del 1990. È dunque estremamente sensibile al prezzo, soprattutto dei prodotti di base. Ma quando diventa “consumatore”, ogni volta che fa acquisti, dovrebbe chiedersi chi ha “pagato” a monte dello scaffale il prezzo basso di cui lui può fruire.
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