Un nuovo studio, presentato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Zhejiang, in Cina, sostiene che il coronavirus sia mutato in almeno 30 ceppi, di cui il più letale è quello diffuso in Europa. Per l’esattezza, sono stati scoperti 19 ceppi mai visti prima. Il professor Giorgio Palù, docente emerito di microbiologia a Padova ed ex presidente della Società italiana di virologia e oggi virologo della task force Covid-19 della Regione Veneto, ci spiega che “si tratta di uno studio ancora da sottoporre a revisione da parte di altri scienziati: non è scienza quello che non è pubblicato. Tutte le riviste scientifiche oggi accettano di avere dei pre-print che non sono ancora passati al vaglio della revisione della comunità scientifica per diffondere notizie”. Lo studio sostiene che esistono virus più letali, come quello diffuso in Europa, e altri meno, per cui saranno necessari più vaccini o più anticorpi monoclonali. Secondo il professor Palù, invece, di tutti i virus di cui siamo a conoscenza il coronavirus è quello che muta di meno.
Che impressione ha tratto da questo studio? Lo ritiene rilevante e innovativo?
Sostanzialmente questo studio sostiene che ci siano due ceppi che circolano nell’uomo, derivati da un unico progenitore, ma differenziatisi a partire da alcune mutazioni iniziali che li hanno fatti divergere. Uno di questi ceppi si suppone possa essere caratterizzato da alta patogenicità per l’uomo e l’altro a bassa patogenicità. Va spiegato però che la ricerca è stata condotta in vitro su cellule di scimmia (e non su cellule umane) infettate con virus provenienti da undici pazienti tutti collegati, tranne uno, al focolaio di Wuhan. I ceppi virali sono stati sequenziati con tecnica ad alta processività di ultima generazione e studiati per la loro capacità replicativa in vitro. Vorrei sottolineare che si tratta di un pre-print, come molte riviste hanno deciso di fare per divulgare prontamente gli studi su Sars-CoV-2 alla comunità scientifica. Non si tratta dunque di un lavoro pubblicato dopo revisione da parte di pari e quindi ciò che non è pubblicato non può essere considerato ancora scienza.
Questo cosa significa?
Che è appunto uno studio in vitro tutto da verificare. Gli autori hanno trovato alcune mutazioni nei virus esaminati e le hanno collegate a una riproduzione virale più sostenuta su cellule di scimmia in coltura (Vero E6). Si sentono così di tracciare una relazione tra queste mutazioni e la diffusione di un virus più aggressivo che si è particolarmente espanso in Europa e nella costa orientale degli Usa.
Invece?
È vero che tutti i virus a Rna mutano, ma il nuovo coronavirus Sars-CoV-2 è tra quelli che mutano meno, essendo dotato di un enzima la 3’-5’ esonucleasi che corregge gli errori di incorporazione nucleotidica che avvengono durante la replicazione del genoma virale. Ci sono oltre 8mila sequenze depositate in banche dati che confermano una variabilità genetica non elevata. Il virus infatti muta dalle 5 alle 10 volte meno di Hiv e del virus dell’influenza. Alcuni lavori hanno previsto che il tasso di mutazione del Sars-CoV-2 sia di 1,3 x mille nucleotidi per sito genomico/anno, molto simile a quello calcolato per i virus della Sars e della Mers.
Ci sono altri aspetti di questo studio che non la convincono?
Lo studio non dice quale funzione sia mutata. Ci sono almeno 16 proteine non strutturali del virus, alcune delle quali coinvolte in vari modi nel bloccare la risposta immunitaria innata e l’attivazione della cascata infiammatoria. Sarebbe stato utile capire quali funzioni sarebbero cambiate, in particolare a seguito di una mutazione significativa (con sostituzione di un aminoacido) sulla proteina S (la spike protein), che è però occorsa in una regione della proteina che non è coinvolta nel legame al recettore cellulare Ace2. Lo studio non correla quindi la mutazione con una aumentata o diminuita funzione del virus.
Per cui l’ipotesi che ci voglia più di un vaccino non si può fare?
È inutile fare ipotesi sui vaccini o i farmaci anti Sars-CoV-2, perché non li abbiamo ancora e questo lavoro non ha riguardato approfondimenti su bersagli terapeutici o proteine di potenziale impiego vaccinale. Molte mutazioni finora riscontrate, inoltre, sono sinonime, non cambiano cioè aminoacidi. È tutto quindi da verificare e non si può per nulla dire che questo studio indebolisca gli approcci in corso per la messa a punto di nuovi vaccini.
(Paolo Vites)