Il governo Lecornu 2, voluto ostinatamente da Macron, illustrerà la legge di bilancio nelle prossime ore, ma sono già pronte due mozioni di censura
A pochi giorni dal voto di fiducia “virtuale” e in un contesto economico sempre più teso – con il deficit francese ancora sopra il 5% del PIL, secondo le stime diffuse da Eurostat, e la Commissione europea che valuta un piano di sorveglianza rafforzata – la Francia attraversa uno dei momenti più complessi della sua storia recente.
Per capire la portata politica e istituzionale di questa crisi abbiamo intervistato Mauro Indelicato, giornalista di InsideOver e analista geopolitico, autore di saggi su Europa e Mediterraneo.
Come definirebbe il nuovo governo di Sébastien Lecornu, appena insediato all’Eliseo?
È un governo che potremmo definire “tecnico” nel senso pieno del termine, e non per caso. Lecornu guida un esecutivo di minoranza: dire che è “fragile” è quasi un eufemismo. Conta soltanto sull’area centrista dei macroniani e su una parte dei Repubblicani di centrodestra, ma senza numeri reali in Assemblea nazionale. Per questo ha attinto molto alla società civile: il prefetto di Parigi all’Interno, una ex presidente del WWF all’Ecologia. Macron ha scelto di presentare un governo apparentemente neutro per cercare un consenso trasversale, dentro e fuori il Parlamento. È un tentativo di “disinnescare” il conflitto politico mostrando volti non partitici, ma il rischio è che questo tecnicismo si traduca in impotenza.
Il primo ministro ha parlato di “governo di scopo”, con l’obiettivo di approvare la legge di bilancio. Riuscirà almeno in questo?
È tutto da vedere. In Francia, a differenza dell’Italia, il governo entra in carica senza bisogno della fiducia parlamentare: basta la nomina del presidente. Ma resta esposto alle mozioni di censura, e qui sta il punto. Le opposizioni – da Mélenchon al RN – hanno già annunciato due mozioni. Se una passa, il governo cade immediatamente.
Ammettiamo che Lecornu sopravviva.
Se sopravvive, la legge di bilancio resta una montagna quasi impossibile da scalare. Si parla di manovra “lacrime e sangue” per recuperare decine di miliardi, e nessuno – a due anni dalle elezioni presidenziali – vuole assumersene la responsabilità. I socialisti potrebbero offrire un appoggio esterno, ma chiedono in cambio il ritiro della riforma delle pensioni, che per Macron è intoccabile. È un rompicapo politico.
Quindi la Francia è bloccata?
Praticamente sì. C’è una paralisi istituzionale che non dipende solo dai numeri parlamentari, ma dalla perdita di fiducia nel sistema stesso. Tutti sanno che servono tagli e riforme, ma nessuno vuole essere ricordato come chi li ha firmati. La differenza rispetto all’Italia è che da noi, anche nei momenti di crisi, il Presidente della Repubblica può favorire la nascita di un governo di unità. In Francia, invece, il Presidente è un’istituzione fortissima ma isolata: se perde il controllo dell’Assemblea, non c’è alcun meccanismo per riequilibrare. E oggi Macron è isolato.
Lei ha parlato di “crisi di sistema”. Cosa intende dire esattamente?
Intendo che la crisi non riguarda solo Macron o Lecornu, ma la Quinta Repubblica nel suo impianto. Il modello semipresidenziale, pensato per un sistema bipolare stabile, oggi è diventato un generatore di stallo. Con il Parlamento frammentato in cinque blocchi, la doppia legittimazione – quella del Presidente e quella dei deputati – crea un conflitto permanente.
Se Lecornu fallisce e Macron scioglie l’Assemblea, non è affatto detto che le nuove elezioni producano una maggioranza diversa. Potremmo trovarci con un Parlamento identico, e allora la Francia dovrà ripensare il proprio sistema istituzionale. È il vero nodo politico di questi mesi.
In altre parole, la crisi francese è più istituzionale che politica?
Esatto. La politica si può cambiare, le istituzioni no, almeno non facilmente. E quando le istituzioni diventano il problema, la crisi si fa sistemica. La Francia è nata come repubblica presidenziale “forte”, ma quel modello oggi si scontra con una società sempre più frammentata, sindacalizzata, individualista. Non c’è più la base sociale su cui poggiava il gollismo o il socialismo di Mitterrand. E senza quella base, la macchina istituzionale si inceppa.
Sul piano economico, i numeri non aiutano. Cosa può dirci in proposito?
Guardiamo i dati: deficit sopra il 5%, debito oltre il 115% del PIL. Siamo ben oltre i parametri europei. Anche con le misure più severe proposte dal precedente governo Bayrou – tagli da 44 miliardi di euro – si sarebbe scesi solo al 4,7%. È una cifra fuori scala.
Il problema è che Parigi non può più permettersi di finanziare crescita e welfare insieme. Deve scegliere, ma non vuole. In questo senso, il caso francese è quasi più critico di quello italiano: l’Italia ha un debito più alto, sì, ma lo gestisce da decenni e ha un avanzo primario strutturale. La Francia no. È questo il paradosso di oggi: l’Italia è diventata più disciplinata della Francia.
Questa crisi quanto pesa sull’Europa?
Tantissimo. Parliamo della seconda economia dell’eurozona, dell’unica potenza nucleare dell’UE, di un Paese cardine nella difesa comune. Una Francia “zoppicante” significa un’Europa più debole, proprio mentre si discute di esercito comune, autonomia strategica, e nuovi equilibri dopo l’allargamento a Est. Nessuno può permettersi una Francia instabile: né Berlino, né Bruxelles, né Roma.
Per fortuna non vedo uno scenario tipo Grecia: la Francia ha risorse, industria e credibilità internazionale. Ma il problema politico rimane, e contagia l’intero edificio europeo.
Bruxelles sta intervenendo? L’UE sembra più prudente rispetto al passato.
Sì, molto più prudente. C’è una procedura di infrazione aperta, ma la Commissione non vuole umiliare Parigi come fece con Atene o con Roma nel 2011. Il clima politico europeo è cambiato: nessuno vuole un’altra crisi di fiducia sull’euro. E poi c’è un dato di fatto: la Francia non è “commissariabile”. Il suo presidente è eletto direttamente dal popolo. In Italia, con il Quirinale, puoi trovare un equilibrio istituzionale; in Francia, no. L’Eliseo è un fortino.
Quindi, dove sta andando la Francia?
Verso un bivio storico. O si forma un compromesso politico serio, magari con una riforma istituzionale in senso parlamentare, o si andrà avanti per inerzia fino al 2027, con governi effimeri e riforme rinviate. Ma non sarà indolore.
In che senso?
Ogni mese di immobilismo aumenta la sfiducia, e la sfiducia è il peggiore dei debiti. Io credo che, prima o poi, la Francia sarà costretta a “rifondare” la Quinta Repubblica. Non perché lo voglia, ma perché non avrà scelta.
(Max Ferrario)
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