Ieri è stata una giornata da dimenticare per le Borse. Coi dazi varati da Trump sembra cambiare un paradigma trentennale
La borsa di Milano ieri ha chiuso in calo del 6,5% e i principali indici azionari americani hanno messo a segno la peggiore performance da giugno 2020 quando l’economia globale era ancora congelata dal Covid e dai lockdown.
Se le politiche di Trump fanno così male alle borse, allora fanno male all’economia; questa diventa l’equivalenza con cui si legge quello che sta avvenendo in questi giorni. È presto per tirare le conclusioni, ma è obbligatoria una precisazione.
Dall’inizio del 2021 alla fine del 2023 le borse sono salite, mentre le condizioni economiche della maggior parte delle famiglie sono peggiorate. Il potere d’acquisto dei salari, è esperienza di molti anche in Italia, si è ridotto, le famiglie sono state costrette a scelte d’acquisto peggiori di quelle del 2019; si sono acquistati meno prodotti e di qualità inferiore e in alcune città è diventato molto più complicato comprare una casa.
Esattamente come le borse che salgono non sono necessariamente una buona notizia per le famiglie lo stesso si può dire, a parti invertite, di quelle che scendono. Il paniere con cui si misura l’inflazione include beni che negli ultimi anni sono stati preclusi alle famiglie impegnate ad arrivare alla fine del mese; se mettere sulla tavola tre pasti al giorno è un’impresa, l’acquisto di una macchina, per esempio, diventa un lusso impensabile.
Le borse scendono perché ci sono i dazi, ma i calcoli che misurano l’impatto sul Pil in decimi di punto non sembrano funzionare. Se funzionassero non assisteremmo al panico di questi giorni. Il fatto è che sta cambiando un paradigma che dura da almeno tre decenni. In questo paradigma la fabbrica del mondo era la Cina, all’Occidente veniva garantita una deflazione secolare e i surplus commerciali venivano investiti sui mercati americani. Le borse potevano salire senza grandi impatti sui prezzi. Eppure il sistema non era per tutti allo stesso modo.
Uno dei segnali che qualcosa non funzionava è arrivato nel 2016 con la prima elezione di Trump. Allora l’America profonda presentava il conto politico del salvataggio del 2008, la crisi Lehman, che aveva certamente sistemato, e con gli interessi, le borse, al prezzo però di lasciare indietro le classi medie e medio basse. Sul finale della seconda Amministrazione Obama era Janet Yellen, allora presidente della Fed e poi segretaria del Tesoro di Biden, ad avvertire la politica che le diseguaglianze economiche nella società americana non erano mai state così alte. Il risultato è noto: contro ogni pronostico Hillary Clinton perse le presidenziali anche se “le borse erano salite” e “la disoccupazione era scesa”.
Un operaio di Detroit non ha risparmi in borsa, non ha proprietà immobiliari, vorrebbe un lavoro pagato dignitosamente e la possibilità di comprare una casa a prezzi accessibili. L’America oggi vuole rimpatriare capacità produttiva e questo implica almeno due cose. La prima è che le borse non possono più salire di continuo e senza correlazione con “l’economia reale”, perché altrimenti il dollaro è destinato a rimanere sopravvalutato. La seconda è che si deve in qualche modo isolare la Cina con le sue imprese.
Uno dei prossimi capitoli del cambio di paradigma annunciato in questi giorni saranno le trattative con i singoli Paesi, che potrebbero portare a dazi inferiori a quelli annunciati. Ieri è stato il turno del Vietnam. Invece non si vedono accordi con la Cina, che è la fabbrica del mondo.
L’Europa dovrà prendere decisioni difficili, perché le merci cinesi che non arrivano più in America rischiano di inondare i mercati europei e perché non sembra più possibile commerciare contemporaneamente con l’America e con Pechino. Ricollocare in “Occidente” la capacità produttiva cinese sarà un processo lungo e doloroso e da questo lato di quella che sembra una nuova Guerra fredda gli Stati competeranno per vincere la partita del rimpatrio industriale.
Si vincerà offrendo le condizioni migliori alle imprese e limitando il più possibile i costi per le famiglie, perché da qualunque lato lo si guardi questo processo nel medio termine non può che essere inflattivo, e perché il lungo percorso di rimpatrio delle fabbriche implica tensioni sull’offerta di beni. Il punto di partenza però è un sistema che funzionava “per le borse” e molto meno per le famiglie.
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