Nella sua catechesi del 26 maggio, ormai verso la conclusione dell’Anno sacerdotale, il Santo Padre – dopo aver toccato i temi dell’insegnamento e della santificazione – ha chiarito in modo illuminante il senso della gerarchia e del governo che gli ecclesiastici, a vario livello, esercitano nella Chiesa.
Il discorso di Benedetto XVI è stato ricchissimo di spunti, che non finiremo mai di meditare. “È importante riconoscere – ha detto il Papa, ripercorrendo brevemente la crisi dell’idea di autorità in epoca moderna – che l’autorità umana non è mai un fine, ma sempre e solo un mezzo e che, necessariamente ed in ogni epoca, il fine è sempre la persona, creata da Dio con la propria intangibile dignità”. Ma se è così, se lo scopo dell’autorità, con le parole del Santo Padre è di “essere trasparenza dell’unico Sommo Bene che è Dio”, essa “non solo non è estranea agli uomini, ma, al contrario, è un prezioso aiuto nel cammino verso la piena realizzazione in Cristo, verso la salvezza”.
L’autorità nella Chiesa, e il suo esercizio, cioè il governo, non può che alimentarsi continuamente alla sorgente di questo fatto. E le conseguenze sono perentorie e inequivocabili. Gerarchia e governo non significano potere, ma servizio alla vita del popolo di Dio. Tale servizio nasce da un amore incondizionato alla presenza di Gesù Cristo, e si esprime come educazione del popolo cristiano.
“Ogni Pastore, quindi – ha continuato il Papa – è il tramite attraverso il quale Cristo stesso ama gli uomini: è mediante il nostro ministero – cari sacerdoti – è attraverso di noi che il Signore raggiunge le anime, le istruisce, le custodisce, le guida”. L’autorità è in funzione dell’educazione del popolo, perché il popolo prenda sempre più coscienza della propria identità e assuma la responsabilità della missione che gli è connessa.
A un certo punto il Papa ha richiamato un concetto di grande importanza, che non deve sfuggire. Il servizio legato al carisma dell’autorità rischia sempre di diventare potere, per colpa di abusi storici e per colpa del carrierismo ecclesiastico. Se questo avviene, ciò vuol dire che la Chiesa fa propria la mentalità del mondo: “l’opinione comune – ha detto il Papa – è che ‘gerarchia’ sia sempre qualcosa di legato al dominio e così non corrispondente al vero senso della Chiesa, dell’unità nell’amore di Cristo”. Perché se la guida e quindi l’autorità nella Chiesa è fondata sul Sacramento, “la sua efficacia – ha detto ancora il Santo Padre – non è indipendente dall’esistenza personale del presbitero”. Sta di fatto che il carrierismo è diventato un fattore grave nella vita della Chiesa, qualcosa che sembra sfigurare la sua identità e la sua presenza. Rendendo la Chiesa molto più vulnerabile di fronte al mondo e di fronte alle tentazioni culturali e morali.
Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo
Da dove nasce il carrierismo? Direi dalla per-versione di un valore positivo, il valore delle amicizie ecclesiastiche. È una dinamica naturale oltre che un fatto importante e positivo che gli ecclesiastici coltivino l’amicizia con altri ecclesiastici. Alla base di questo vi sono fattori culturali e attinenti alle singole biografie delle persone che servono Dio come pastori. Tali rapporti di amicizia sono nati nei Paesi da cui gli ecclesiastici provengono, si sono incrementati attraverso gli studi seminaristici o universitari, sono maturati in esercizi di attività pastorali parallele e contigue.
L’errore comincia quando le amicizie non sono usate in funzione della Chiesa, ma per servirsi di essa. Non può essere necessario e sufficiente, per ricoprire una certa responsabilità nella Chiesa, essere stato amico di certe persone ecclesiasticamente influenti. Gli “amici” dovrebbero chiedersi con molta umiltà, quella umiltà a cui il Papa richiama continuamente, se sono effettivamente in grado di servire in quella responsabilità la Chiesa, amando le esigenze e i diritti della Chiesa più delle esigenze e dei diritti della propria amicizia. Altrimenti il carrierismo trasforma un servizio appassionato al bene della Chiesa in un potere che si esercita sulla Chiesa a partire dalle proprie capacità, dal proprio valore personale.
Per far sì che l’amicizia divenga sorgente di amore e di servizio, anziché strumento di potere, è innanzitutto necessaria quella forma alta e suprema di amicizia che è l’obbedienza a Cristo. “Nessuno è realmente capace – dice il Santo Padre, in uno dei passaggi più belli del suo discorso – di pascere il gregge di Cristo, se non vive una profonda e reale obbedienza a Cristo e alla Chiesa, e la stessa docilità del Popolo ai suoi sacerdoti dipende dalla docilità dei sacerdoti verso Cristo; per questo alla base del ministero pastorale c’è sempre l’incontro personale e costante con il Signore”.
Ecco perché, secondo me, è necessaria una profonda revisione del concetto di amicizia ed è necessario che ci si aiuti tutti, nella Chiesa, a viverla in funzione del servizio a Cristo e alla Chiesa e non dell’occupazione del potere.
Clicca >> qui sotto per continuare l’articolo
È naturale d’altra parte che il potere sia ben lieto di insinuarsi in questa debolezza umana della Chiesa e di volgerla a proprio vantaggio. Il rapporto della Chiesa con i mass media raggiunge talvolta, purtroppo, livelli di guardia. I nomi dei “candidati” a qualche livello di responsabilità stazionano per mesi sui giornali di ogni tipo, soprattutto quelli laicisti. I candidati vengono sottoposti ad “esami di idoneità” i cui criteri, culturali e politici, sono inevitabilmente quelli del mondo. Sant’Ambrogio diceva che lo Spirito Santo di Dio abita nel cuore dei sacerdoti credenti e dell’intera comunità cristiana quando crede. Oggi si è tentati di pensare che lo Spirito discenda sulle redazioni dei giornali, sembrano essere queste l’ambito dove si maturano scelte decisive come importanza per la vita della Chiesa.
Ma c’è il miracolo! La Chiesa è sempre stata sostenuta dai miracoli che Dio ha fatto, in barba a tutte le previsioni, a tutti i progetti. Nessun amico potente aveva promosso Sant’Ambrogio alla Chiesa di Milano. Nessun amico potente aveva suggerito a San Carlo di chiedere allo zio di essere inviato a Milano come vescovo. Un impegno che si assunse per la sua vita e per la sua morte. Forse la Chiesa di Dio, soprattutto quella che sente così forte il disagio e la vergogna del carrierismo, dovrebbe intensificare le preghiere perché il Signore rinnovi, con il suo braccio santo, i miracoli che possano rendere sempre più vera e grande la vita della Chiesa.