Dice bene Giulio Sapelli, da tempo (da quanto tempo?) si è smarrito non il concetto, ma il senso stesso della giustizia. E dice ancora meglio quando segnala che è stato papa Benedetto a evidenziare questo vuoto, e a richiamare il mondo – non solo i cattolici, non solo i cristiani, non solo i credenti – alla necessità e all’urgenza di colmare questo vuoto. Adesso. Nel fuoco di una crisi forse appena all’inizio, probabilmente paragonabile, per i suoi effetti sotto ogni profilo sconvolgenti, a una guerra. Di una crisi di cui tutti vediamo a occhio nudo la gravità, ma per la quale nessuno sa individuare terapie convincenti.
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Nel documento di Cl delle parole del Papa c’è naturalmente traccia. Per me, è una buona base di discussione e di confronto per quanti, spes contra spem, non intendono rassegnarsi, e cercano non la pietra filosofale che a tutto e tutti dà la risposta, ma le forme di un possibile impegno concreto, individuale e collettivo (le opere). Credo anche, però, che il discorso vada sviluppato, articolato, arricchito.
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Lo stesso principio di sussidiarietà, tanto caro a Cl, e a me per nulla inviso, da solo non basta. Anzi: se lo si declina troppo frettolosamente può ridursi a variante di un conservatorismo caritatevole a cui non crede più nessuno. “Pietà l’è morta”, recitava una vecchia canzone partigiana. In una crisi che mina in radice assetti economici, sociali e politici fino a ieri a torto reputati eterni e altrettanto a torto considerati “naturali”, il pericolo (spaventoso) è esattamente questo: guerra di tutti contro tutti, e senza fare prigionieri.
È giusto fare appello ai singoli e alle forze (sono tante) che operano nella società, perché, rendendo vive e operanti la solidarietà e la reciprocità, facciano la loro parte più ancora di quanto la fanno oggi. Da qui può arrivare un apporto importante per attutire, per quanto possibile, i costi sociali, personali e umani (sto parlando di costi potenzialmente spaventosi, non del rinvio di qualche anno dell’andata in pensione) che la crisi comporta. E qui risiede, per essere espliciti, anche la verità più nobile tanto del movimento dei cattolici quanto del movimento socialista (e non penso solo ai suoi albori, e alle maestrine dalla penna rossa) almeno in Italia.
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Solo dei cretini (ma il tempo del pensiero unico, tramontando ingloriosamente, ce ne ha lasciati in eredità tantissimi) pensano che queste siano robe da libro Cuore: oltretutto nella convinzione, assolutamente errata, che il socialista Edmondo De Amicis fosse un mediocre scrittore e un piemontese falso e cortese.
Attenzione, però. A questa politica non si può delegare più nulla, il tempo degli scambi è finito anche perché non ha più nulla da scambiare. Ma, se non si incontra in qualche modo la politica, quella politica che è la vera desaparecida del mondo contemporaneo, si possono fare ottime cose nella società, ma sui percorsi e sugli esiti della crisi non si incide più di tanto.
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Di sicuro, non si pongono le premesse di quel governo mondiale della finanza che una Chiesa allibita dalla gravità dei guasti prodotti dal neoliberismo trionfante giustamente invoca; e, per restare all’Italia, non si gettano le basi perché il Paese possa uscire dalla crisi domani, dopodomani o quando sarà, non solo risanato finanziariamente, ma anche più giusto, più equo, più solidale.
È chiaro: se la politica di governo e di opposizione non c’è, e quindi (comprensibilmente) l’antipolitica dilaga senza incontrare resistenze, non possiamo inventarcela noi. Possiamo, però, ciascuno con la propria storia, con la propria cultura, con i propri ideali, darci da fare perché una politica nuova cominci a prendere corpo, ispirandoci al motto antico: fa quel che devi, avvenga quel che può.
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Dopo il discorso di Bagnasco alla Cei, e dopo Todi, dal mondo cattolico, infinitamente più variegato e complesso di come di solito lo si rappresenta, qualche segnale importante in questa direzione. Altrove, è silenzio, un silenzio che non promette niente di buono. Ben venga l’iniziativa di Comunione e Liberazione, se può riuscire a renderlo, se non altro, un po’ meno cupo.