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Home » Cronaca » METE D’ESTATE/ Il dialetto monferrino e il tesoro nascosto dei mori

  • Cronaca

METE D’ESTATE/ Il dialetto monferrino e il tesoro nascosto dei mori

Paolo Massobrio
Pubblicato 24 Giugno 2013
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Quando le stagioni cambiano, aumenta l'intensità dei profumi e a giugno il nitore dei fiori è molto intenso, mentre la terra sembra un corpo vivo. Il racconto di PAOLO MASSOBRIO

Cosa succede quando i mesi incalzano? Succede che aumenta l’intensità dei profumi e se in certi giorni di febbraio sentivi un presagio della Primavera, a giugno il nitore dei fiori è molto intenso, soprattutto al mattino presto, quando la terra sembra un corpo vivo che s’é già svegliato. E persino la frettolosa salita in auto non ti fa perdere il profumo dell’ortica o quella del tiglio. Cosa vuol dire tutto questo? Meraviglia, semplicemente meraviglia. E lo dico pensando ad una delle ultime interviste, forse l’ultima, che rilasciò al Corriere della Sera Giovanni Testori, negli ultimi giorni della sua vita, all’ospedale San Raffaele di Milano, dove la cosa più importante dei suoi istanti era la brezza di cui poteva godere.


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Il dolore – cantava il mio amico Claudio – “toglie il gusto alle cose… ma riempie le parole e di vita le colora”. Ed io mi rivedo con la mia mamma (che misteriosa grande cosa è una mamma), negli ultimi anni della sua lucidità, quando mi divertivo a parlarle in dialetto monferrino e lei mi rispondeva come se quel dialogo fosse una cosa normale, benché avesse passato tutta la vita, con mio padre, ad insegnarmi a parlare l’italiano. Già, due che arrivavano dal mondo contadino, a Milano, non potevano certo far brutte figure. Eppure quel dialetto (ma lo ritengo riduttivo chiamarlo dialetto, quando invece è una lingua) era fantastico, immaginifico. Cito solo le albicocche, che a Masio, il mio paese, chiamano armugnac, parola francesizzante dove però quel gnac significa schiacciare. Appunto il frutto che quando cade a terra si schiaccia. E il mour? E’ il nome della faccia, che forse deriva dal moro, che fu l’ossessione per la gente degli interni, come noi piemontesi, “col sole rare volte e il resto è pioggia che ci bagna…” cantavano Paolo Conte e Bruno Lauzi in “Genova per noi”. Il moro, dicevo, era il simbolo dei saraceni che lentamente avanzavano dalle coste inabitate delle Liguria fin sulle colline del Monferrato (pensate che a Olivola Monferrato si narra che sia ancora nascosto, da qualche parte, il tesoro dei Saraceni).


SUPERENALOTTO, LOTTO, SIMBOLOTTO, 10ELOTTO/ Numeri vincenti oggi, sabato 6 dicembre 2025


Anche al mio paese, Masio, c’è una torre saracena, che il 7 luglio verrà inaugurata con la banda, dopo la ristrutturazione. E sarà un momento solenne, almeno per chi l’ha vista fin da quando aveva un anno… e non vi è mai salito. E’ una torre di avvistamento che serviva a mandare segnali ad altre torri e castelli secondo un sistema di comunicazione incredibilmente efficace, che ho visto tale e quale persino in Sicilia, a Castelbuono.
Tornando al dialetto, converrà con me Riccardo Ruggeri, uno dei migliori editorialisti del momento, che un’altra parola piemontese di straordinaria efficacia è “dromi” (dormire). Al mio paese, in verità, si dice “drumì”. E il cantautore medico Paolo Frola ci ha scritto una memorabile canzone dedicata al suo primario Ghia (anduma a drumì!). In verità è più evocativa la parola dromi, senza l’accento, come usano nel Casalese, fin nelle risaie del Vercellese e oltre. Dromi è come un sinfonia decrescente, come quando arrivi a casa alla fine di una giornata e pensi che la cosa più piacevole che possa capitare è andare a letto. Anduma a dromi… e la giornata si spegne in un abbraccio di silenzio.

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