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Home » Cronaca » DIARIO USA/ Dopo Kavanaugh: proteggere invece di educare, la “bolla” che ci inganna

  • Cronaca

DIARIO USA/ Dopo Kavanaugh: proteggere invece di educare, la “bolla” che ci inganna

Riro Maniscalco
Pubblicato 8 Ottobre 2018
america_newyork_neri_lavoro_maniscalco_2017

(Foto Riro Maniscalco)

Eletto Kavanaugh alla Corte suprema, il problema resta: ognuno combatte contro il suo nemico, guardandosi bene dall'ascoltare cosa dice. E si chiude in una bolla. RIRO MANISCALCO

NEW YORK — Mi piacerebbe parlare di cose belle ed edificanti, ma da queste parti non è aria. Quel che fa notizia non sono i tanti fatti della vita vera di gente vera, ma il batti e ribatti tra fazioni alimentato dall’acido corrosivo della polarizzazione ideologica. Uomini contro donne, bianchi contro neri, studenti contro insegnanti, papisti contro antipapisti, e se volessimo darne una lettura sintetica, sedicenti conservatori contro sedicenti progressisti. Viene addosso la nostalgia dei tempi in cui il tifo, l’appartenenza sportiva, rappresentava il massimo della contrapposizione tra persone di uno stesso paese.


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Terminata l’indagine del Fbi con un nulla di fatto, eletto Kavanaugh alla Corte suprema, si moltiplicano le manifestazioni su un fronte e sull’altro, in una totale confusione, anzi, assenza di idee eccetto una: schierarsi con quelli che la pensano come te e combattere il nemico guardandosi bene dall’ascoltare quel che ha da dire. E anche chi si ritenesse fuori da questa polarizzazione badi bene alle parole che usa, stia ben attento a non far battute fuori luogo perché basta molto poco ad essere inscatolati in uno schieramento e di conseguenza etichettati come persone indegne. Come ho già avuto occasione di raccontare, anche io ebbi l’inebriante esperienza di venir bollato come “sessista” per essermi offerto di aiutare una ragazza a portare uno scatolone che non sarebbe mai riuscita a portare. 


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E’ uno dei grandi temi dell’America d’oggi che l’America non comprende: proteggere invece di educare. L’ultimo esempio l’altro ieri, al Brooklyn College, dove un certo Prof. Mitchell Langbert se ne è uscito sul suo blog con più o meno queste parole: “Se qualcuno non ha assalito sessualmente qualcun altro negli anni delle Superiori non fa parte del sesso maschile. Nel futuro, aver commesso atti di questo genere dovrà essere un prerequisito per tutte le nomine, giudiziarie e politiche. Quelli che non hanno mai giocato a ‘far girare la bottiglia’ non dovrebbero ricoprire cariche pubbliche”.


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Dall’uso delle parole mi sembrerebbe ovvio che si tratti palesemente di satira, certamente discutibile visto il contesto attuale della vita socio-politica americana in cui il prof le ha lanciate. Risultato? Centinaia di studenti del campus a chiedere il licenziamento in tronco dell’autore del blog. Hai voglia a dire che era satira, hai voglia ad appellarti al primo emendamento della Costituzione americana (freedom of speech, libertà di parola)…  Tanti colleghi sono scesi in campo a difenderlo, ma l’unico pronunciamento ufficiale del college, premonitore della solita inevitabile ed inutile indagine, è stato che il post del Prof. Langbert “Fa sentire gli studenti on campus non sicuri”. 

Sentirsi al sicuro … si parla in Italia di “safe places”? Se non se ne parla non preoccupatevene: se ne parlerà presto. Safe places, quelle “bolle” che riescono ad essere allo stesso tempo rifugi in questo mondo e dimensioni totalmente fuori dal mondo. Safe places dove si può agire liberamente, parlare liberamente, farsi forza reciprocamente, inventare chissà quali lotte di resistenza al male in agguato dietro ad ogni angolo. Perché come giustamente osservò già tre anni fa la giornalista Judith Shulevitz, “Se uno spazio è sicuro significa che gli altri non lo sono”. In altre parole tutto ciò che non è nella mia “bolla” mi è nemico, chi dice parole, formula pensieri, esprime giudizi non ospitati nel mio mondo è il “male” e come tale va eliminato e da esso io devo essere protetto: che sia un professore, un politico, una donna che ha subito violenza, o un candidato alla Corte suprema. Nati nel mondo universitario, questi cosiddetti “safe spaces” stanno cominciando a prender piede anche nel mondo corporate, tanto per rendere scientificamente e strutturalmente repellente al dialogo anche il mondo del lavoro. 

So che perderò qualche simpatizzante, ma devo dire che ieri mentre guardavo gli studenti del Brooklyn College brandire cartelli contro Langbert e chiedere a gran voce il suo licenziamento in tronco mi è venuta in mente una delle cose a mio avviso più brutte (da tutti i punti di vista) che il mondo del rock ha mai generato. “We don’t need no education … Teacher, leave the kids alone …” ovvero, non abbiamo bisogno di educazione … insegnanti, lasciate in pace i ragazzi.

Anzi, facciamo di meglio, “proteggiamoli”. Proteggiamo, visto che non sappiamo più cosa sia educare. God bless America.


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