Per l’omicidio di Michela Di Pompeo, l’insegnante uccisa con un manubrio da palestra nel 2017, è stato condannato il compagno Francesco Carrieri a 30 anni di carcere. La sentenza è stata amessa dal gup Elvira Tamburelli, al termine del giudizio con rito abbreviato. La vicenda risale al primo maggio dello scorso anno: il direttore di banca 56enne uccise l’insegnante della Deutsche Schule di Roma per banali motivi di gelosia. La strangolò mentre dormiva nel loro appartamento e la massacrò con un manubrio da palestra. Il giudice ha anche disposto a carico dell’imputato il sequestro del suo Tfr e dei conti correnti bancari in vista del risarcimento danni da destinare alla famiglia della vittima, che però dovrà essere definito in sede civile. La condanna a 30 anni era stata sollecitata dal pm Pantaleo Polifemo, che nei mesi prima si era pronunciato per una richiesta più morbida, cioè 12 anni per omicidio volontario, senza aggravanti e con l’attenuante della seminfermità mentale dovuta ad un disturbo bipolare grave.
FRANCESCO CARRIERI CONDANNATO A 30 ANNI DI CARCERE
Decisiva è stata la perizia, disposta su richiesta della parte civile, secondo cui Francesco Carrieri è risultato capace di intendere e di volere al momento del fatto. Il processo è stato caratterizzato dalla perizia nei confronti dell’imputato: era folle o lucido? Nel delitto c’era il raptus feroce con cui aveva stretto al collo Michela a cui poi assestò una raffica di colpi alla testa con un manubrio da palestra. Ma c’era anche la ratio con cui affrontò le conseguenze del proprio gesto confessando e offrendo delle spiegazioni. In questa strettoia giuridica si è inserita l’iniziativa della gip Elvira Tamburelli che aveva disposto una nuova perizia per accertare la salute mentale dell’imputato. Il documento depositato l’estate scorsa stabilì che l’imputato era lucido. Per questo motivo il pm ha riformulato la sua richiesta di condanna senza più riconoscere all’imputato alcuna attenuante. «In questo momento non c’è felicità né gioia – ha detto Luca Di Pompeo, assistito dall’avvocato di parte civile Luca Petrucci – perché nessuno potrà restituirci mia sorella Michela. Ma abbiamo la consapevolezza che con questa sentenza ì stata fatta giustizia».