L’attentato di Liegi ci dice tre cose. In primo luogo che il proselitismo della fratellanza musulmana, di stampo jihadista e radicalista, non molla la presa in Europa e continua a fare adepti. E che finché non si metterà fine al mare di denaro che affluisce nelle casse degli agenti della fratellanza dal Qatar non ci sarà mai uno stop significativo nella loro attività; ogni volta che un jihadista colpisce in Europa dovrebbe risuonare questo imperativo: niente soldi, niente jihad. Se non si pone mano in maniera massiccia alla prepotente cascata di denaro che nutre la fratellanza e arma indirettamente la mano degli jihadisti per l’Occidente la speranza è appesa a un filo: e le domande sul perché nessuno spezza questo filo rosso sono moltissime, peccato che i grandi analisti nostrani non si azzardano a farle nemmeno per sbaglio.
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In secondo luogo, seguendo la linea di cosa è successo a Liegi, ci si imbatte nella scelta di non uccidere la donna ostaggio perché di fede musulmana. E anche qui il concetto è piuttosto semplice: nella farneticante visione imposta dai proselitisti nelle menti malate di coloro che poi compiono questi gesti c’è chiaro e semplice l’obiettivo di eliminare chiunque sia di intralcio all’avanzata della fratellanza musulmana in Occidente. Chiunque non si possa considerare allineato con un certo pensiero, il che nella testa destrutturata e poi ristrutturata dal messaggio proselitista coincide con il fatto che un musulmano possa eventualmente anche non essere considerato un obiettivo da colpire. Senza stare a pensare se quella persona sia o meno coerente con un determinato pensiero. E c’è da pensare che la signora potesse non esserlo.
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In terzo luogo l’elemento a mio modo di vedere più rilevante in tutto questo parlare di cause e di modalità del terrorismo jihadista: le carceri. Il soggetto era un ex detenuto, radicalizzato in carcere e appena uscito ha messo in atto il compito che chi era in quel penitenziario gli ha programmato in testa. E ciò che deve far riflettere ancora di più è il fatto, venuto alla luce solo a ventiquattro ore di distanza, che il jihadista aveva ucciso il giorno prima un altro ex detenuto. Il che lascia a intendere che possa essersi trattato di un personaggio con cui magari il soggetto aveva avuto dei contrasti in carcere, forse proprio per questioni legate all’estremismo. Questo porta a ribadire ancora una volta il ruolo delle carceri come vero e proprio ricettacolo di proselitismo in tutta Europa: si pensi ai detenuti radicalizzati fuggiti in Francia e a quello scappato in Italia e poi ripreso. E come sia importante la formazione degli agenti della penitenziaria in questo ambito.
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Settimana prossima inizierà l’ennesima sessione di corsi appositi che abbiamo messo in campo dedicati proprio agli agenti del corpo penitenziario, perché loro sono i primi occhi capaci di vedere, capire, fermare. Troppo spesso il carcere come luogo di proselitismo è stato sottovalutato, e ogni volta che un radicalizzato compie un attentato pare si cada dalle nuvole. Forse perché anche collegare è diventato un atto contrario al politicamente corretto.