«Qualcuno doveva aver calunniato Josef K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male, una mattina venne arrestato». È il famoso incipit de Il processo di Franz Kafka (1883-1924), che prima dell’89 in Europa orientale appariva più concreto del «realismo socialista» imposto dal regime. Kafka aveva descritto l’uomo alienato in un sistema fin troppo simile al totalitarismo comunista; ricorda l’ex-dissidente Efim Etkind che in URSS circolavano copie artigianali anonime de Il processo, e chi lo leggeva era convinto fosse opera di uno scrittore sovietico: «Non descriveva forse gli avvenimenti degli anni del terrore staliniano in URSS? Solo un russo-sovietico poteva conoscere così bene tutti quei particolari!».
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Dal 1948, anno del putsch comunista, Kafka in Cecoslovacchia era diventato tabù: la politica culturale del regime lo bollò come decadente, e le sue origini tedesco-ebraiche borghesi offrivano un altro pretesto per screditarne l’opera. Il critico americano H. Fast, che negli anni Cinquanta andava per la maggiore nel blocco orientale, scrisse che Kafka sedeva «in cima al letamaio culturale della reazione». Solo la Jugoslavia, amica ribelle dell’URSS, non censurò lo scrittore.
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Dopo una timida apertura sulla scia del disgelo sovietico (1956), nel 1959 Jiri Hajek sulla rivista Tvorba liquidò Kafka con un giudizio che divenne un mantra culturale: gli veniva riconosciuta l’importanza di aver descritto l’alienazione dell’uomo nella società occidentale, ma dato che nel socialismo l’uomo «non è più alienato», la sua opera «non è più attuale, e non è più necessario ispirar visi».
Nel 1963 fra i germanisti dell’Università di Praga nacque l’idea di un convegno su Kafka in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita. Così, con il beneplacito del Partito, si svolse presso il castello di Liblice il convegno che «sdoganò» Kafka e costituì una pietra miliare per la ripresa culturale culminata nel 1968.
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Gli studiosi di allora vollero valutarne l’opera «dal punto di vista marxista-leninista», giungendo spesso a conclusioni forzate: ad esempio Eduard Goldstücker annoverò lo scrittore tra le vittime del culto della personalità e, prendendo spunto dal racconto Il fochista, concluse che l’atteggiamento di Kafka nei confronti del proletariato corrispondeva a quello di un socialista utopista. Ancora, commentando la figura dell’agrimensore K., Goldstücker dedusse che «la professione scelta da Kafka per il suo eroe è una sorta di crittografia dell’attività rivoluzionaria: la parola Landvermesser (agrimensore) contiene l’idea del sich vermessen, “osare”, e il suo lavoro richiama la ridistribuzione delle terre e della proprietà».
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Fortunatamente altri relatori ebbero un approccio meno politicizzato, soffermandosi su tematiche come l’alienazione, l’incertezza esistenziale e la responsabilità personale, che sarebbero state riprese, di lì a poco, dagli autori del dissenso. Questi interventi furono aspramente criticati dagli ospiti tedesco-orientali, che si rifacevano alla teoria di Hajek.
La polemica fra i due gruppi si trascinò sulla stampa nei mesi successivi finché l’URSS mise tutti in riga per evitare uno strappo culturale. Nel luglio 1967, al IV Congresso degli scrittori cecoslovacchi, le idee espresse timidamente a Liblice si trasformarono in richieste concrete: abolizione della censura e più spazio per la creazione libera. Poi venne l’invasione: Heinrich Böll ricorda una scena dell’agosto 1968: «Davanti alla casa natale di Kafka sta un carro armato, con il cannone puntato contro il suo busto».
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Con l’avvio della normalizzazione (1969) Kafka ritornò nell’ombra, e i tedesco-orientali si presero la rivincita: il Neues Deutschland scrisse che «l’influsso dell’ideologia revisionista è scaturito dalla conferenza del ‘63»!
Ma fu dall’URSS che, nel 1988, arrivò inaspettatamente una nuova apertura: un paio di articoli che rivalutavano Kafka prepararono il terreno perché Kmen, organo dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi, uscisse con un numero interamente dedicato allo scrittore. Così le opere di Kafka da «specchio della decadenza» divennero ufficialmente «l’onesta espressione di un narratore, la confessione di un’anima messa alla prova».
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Nell’ottobre scorso, a 45 anni di distanza, l’Istituto di Critica Testuale dell’Università di Heidelberg e l’Istituto di storia contemporanea di Praga, hanno organizzato nella stessa Liblice un convegno dedicato a Kafka e il potere, che ha richiamato un’ottantina di studiosi da vari paesi. A differenza di quello storico del ‘63, però, a parte qualche polemica fra studiosi, è stato piuttosto avaro di novità.