Don Colombo, riflettiamo sulle motivazioni che hanno portato i giudici di Milano ad autorizzare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione ad Eluana Englaro, la ragazza che vive in stato vegetativo dal 1992. Si parla, nella sentenza, della «straordinaria tensione del suo carattere verso la libertà» e si fa cenno alla sua «visione della vita», che risulterebbe «inconciliabile» con l’attuale condizione. Cosa ne pensa?
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Innanzitutto ciascuno può parlare solo per sé a proposito della propria concezione della vita, e dello scopo per cui si alza alla mattina o va a dormire alla sera. Tutto quello che sappiamo è quello che Eluana ha affermato in alcune circostanze, come nel caso di un incidente di un suo amico, rimasto poi in coma. Ma la situazione è assai diversa: quel ragazzo era, appunto, in coma, mentre lei è in uno stato vegetativo persistente dal quale potrebbe risvegliarsi, come in alcuni casi, sebbene rari, è accaduto.
Secondo aspetto che occorre considerare è che non si può partire da una presunzione e, sulla base di questa, impostare un’azione. Ogni azione, come quella che si vorrebbe praticare su Eluana, cioè di toglierle l’alimentazione e l’idratazione, può provenire solo da un’analisi ragionevole della sua situazione clinica, di ciò che le consente di restare in vita, di qual è il suo ruolo ancora dentro a quel corpo che le appartiene e che lei stessa è.
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Naturalmente questa sentenza avrà delle conseguenze su quello che è il dibattito politico intorno ai temi dell’eutanasia e del testamento biologico. Cosa accadrà secondo lei?
Da una parte è la prima volta, almeno nel nostro Paese, che una sentenza giudiziaria entra nel merito di un atto medico, che invece era stato sinora lasciato alla scienza e alla coscienza del medico stesso, e all’alleanza terapeutica, al rapporto personale tra medico, paziente e familiari. Si tratta di un’appropriazione da parte della magistratura di un diritto che non le è proprio: il diritto sanitario si limitava infatti a regolare i contratti tra le parti, non a stabilire ciò che fosse dovuto o non dovuto dal punto di vista delle cure. Dall’altra parte mi pare che questo episodio possa prestarsi a pericolosissime strumentalizzazioni, in vista di un dibattito che potrebbe aprirsi a breve in Parlamento su leggi che riguardano la sospensione dei trattamenti e delle cure dei pazienti. Ci auguriamo che questo non accada, anche se occorrerà essere molto vigilanti.
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Dalle sue parole emerge l’idea di una sorta di “invasione di campo” della magistratura sul terreno proprio dei medici: nella sentenza si danno addirittura indicazioni tecniche su come operare la sospensione dell’alimentazione, sui farmaci da somministrare. Che significato e che importanza ha tutto questo?
È proprio questo che desta maggiore stupore, il fatto cioè che il “non-medico” – cioè l’autorità giudiziaria – entri nel merito di come alcuni atti medici andrebbero eseguiti o non eseguiti. La ragione è probabilmente la seguente: si vuole tranquillizzare l’opinione pubblica, e in qualche modo anestetizzare le coscienze individuali e collettive presenti nella società circa gli effetti della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione. Questi atti, come si sa, sono portatori di un deperimento molto rapido e molto doloroso, fino alla morte. Si sono volute stabilire delle condizioni che in qualche modo rassicurassero sul fatto che questa sentenza di morte sarebbe stata, a dir loro, quanto più dolce possibile e meno sofferta. In realtà tutto ciò non cambia la realtà delle cose: non è la modalità con cui si esegue una sospensione dei trattamenti che dice se il trattamento era appropriato o inopportuno. In questo caso si tratta di un trattamento che né la scienza né la coscienza del medico dovrebbero mai permettere, in qualunque forma esso venga eseguito.
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Si è anche parlato in queste ore di un parallelismo con la vicenda di Terry Schiavo: le sembra un accostamento opportuno?
Vi sono analogie e dissomiglianze dal punto di vista della condizione clinica dei due pazienti; ma dal punto di vista sociale e culturale mi sembra un parallelismo quanto mai ragionevole. Fu proprio quel caso, infatti, ad aprire negli Stati Uniti alla possibilità di sospendere i trattamenti a pazienti che si trovino in determinate condizioni. Fu proprio una sentenza, che innescò un processo di deriva che portò all’ammissione, in alcuni Stati, dell’eutanasia.