Eravamo preparati a tutto, ma non alle candele e alle preghiere
Racconta Thomas Brose che nel 1986 l’ateo militante Olof Klohr, il più importante sociologo della religione della Repubblica Democratica Tedesca, trovandosi di fronte a 150 studenti di teologia aveva ammesso: «Anche gli studiosi di ateismo possono sbagliare», e aveva riconosciuto che «con il cristianesimo dovremo fare i conti ancora per secoli». Non era un fatto da poco, dato che nel 1958 lo stesso Klohr era fermamente convinto che nel giro di pochi decenni il fenomeno religioso sarebbe scomparso.
Questo episodio, successo tre anni prima della caduta del Muro nell’unico istituto di teologia cattolica della Germania Est, era quanto mai sintomatico: un’intera generazione di cristiani tedesco-orientali, segnata dal duro confronto con l’ateismo, aveva capito che la Chiesa era l’unica grande organizzazione che, per il solo fatto di esistere, poneva dei limiti alla pretesa assoluta dello Stato.
Non che i numeri dessero grandi motivi di incoraggiamento: nel 1949, anno di fondazione della RDT, l’80% degli abitanti si dichiarava evangelico, l’11% affermava di essere cattolico. In occasione del censimento del 1964 i protestanti erano diventati il 59%, i cattolici l’8%. La drammatica diminuzione di fedeli non si era arrestata e nel 1989 le percentuali si erano dimezzate. Eppure, senza questo ambiente cattolico ed evangelico la rivoluzione dell’89 non sarebbe stata possibile: è grazie all’«impalcatura» delle Chiese popolari che la caduta del Muro ha avuto lo svolgimento incruento che ne ha fatto un episodio di luminosa memoria.
Le comunità studentesche cristiane erano mal tollerate nelle università della Germania Est e alla prima occasione si cercava di arrestare ed espellere i membri attivi. Queste comunità universitarie costituivano un problema perché potevano diffondere tra i giovani intellettuali una visione del mondo alternativa, e ormai da decenni alla Chiesa era vietato parlare nelle università. Questo silenzio forzato era stato rotto per la prima volta nell’autunno del 1989, quando a Berlino un pugno di giovani cristiani, in nome di Romano Guardini, (pure lui allontanato dall’università, a suo tempo) aveva chiesto di poter entrare ufficialmente nell’Università Humbolt.
Per essere all’altezza del proprio compito e non lasciarsi estromettere del tutto dallo «spazio culturale», le comunità cristiane universitarie avevano sviluppato, pur in condizioni molto difficili, un programma di formazione ben strutturato. Discutevano di letteratura, arte e storia, di questioni filosofiche e politiche; sapevano di avere una funzione centrale perché coglievano problemi di cui nelle università non si poteva parlare, essendo considerati «borghesi», «antisocialisti», «decadenti» o «esistenzialisti».
Così hanno lasciato un’impronta in generazioni di studenti per il solo fatto di aver offerto al posto dell’ideologia dominante la ricchezza della tradizione spirituale e religiosa. Non pochi di coloro che nell’autunno 1989 sono scesi coraggiosamente in piazza avevano imparato a pensare liberamente nelle comunità studentesche evangeliche e cattoliche.
I primi luoghi di aggregazione dell’opposizione vera e propria erano state le comunità evangeliche: la chiesa di san Nicola a Lipsia e la chiesa del Getzemani a Berlino. Hans Simon, parroco della chiesa del Getzemani, racconta che i giovani della «Biblioteca per l’ambiente» che si trovava presso la parrocchia, avevano da tempo ampliato il concetto di ecologia fino a comprendere anche la struttura politica e sociale. Dalla fine degli anni ‘70 i parroci all’opposizione usavano questa formula per dare spazi di libertà ai gruppi che operavano in difesa dei diritti umani.
Ma anche la Chiesa cattolica minoritaria, che dapprima aveva accolto con esitazione le parole «Non abbiate paura!» pronunciate da Giovanni Paolo II nel 1979 in Polonia, dalla metà degli anni ‘80 era uscita allo scoperto, iniziando a intervenire con più forza. In tal modo, afferma il teologo cattolico Lothar Ullrich, i cattolici erano usciti «dal ghetto che si erano costruiti da soli».
Sicuramente tanti fattori hanno fatto implodere il sistema (l’esodo di 10.000 tedeschi dell’Est attraverso l’Ungheria, le difficoltà economiche), ma i testimoni oculari sono concordi nel ricordare la caduta del Muro non come un fatto meccanico o fatalistico: nella notte del 9 novembre 1989 molti ripetevano la parola «miracolo». La folla che ingrossava sempre più, la manifestazione pacifica, la gente che brandiva le candele mentre la polizia era scomparsa: «Eravamo pronti a tutto, ma non alle candele e alle preghiere», avrebbe detto in seguito un alto funzionario.
In quel momento è caduto col Muro ogni schema mentale deterministico, perché era evidente che la storia non si svolgeva entro le traiettorie previste, ma era fatta dal rischio della libertà.
Giovanni Paolo II è stato forse il primo a indicare la rivoluzione nell’Europa dell’Est come un fatto nuovo e gravido di conseguenze per il futuro perché, contrariamente alla lotta di classe e alla guerra totale, puntava sul dialogo e sulla solidarietà e con ciò mostrava «un’illimitata fiducia in Dio Signore della storia». In questo orizzonte le conseguenze dell’autunno 1989 restano «una sfida alla libertà umana a collaborare al progetto di salvezza di Dio, che agisce nella storia».
[L’articolo di Thomas Brose sul movimento religioso che ha preparato e accompagnato la caduta del Muro di Berlino, sarà pubblicato in un Dossier speciale sul n. 6/2009 de «La Nuova Europa», in uscita alla fine di novembre]