Il libro del Papa che è uscito da due giorni da Cantagalli col titolo L’elogio della coscienza ripropone questioni di estrema attualità su cui abbiamo avuto già occasione di soffermarci.
Ratzinger coglie con grande lucidità la questione essenziale che determina il dibattito filosofico e politico oggi. Una questione che è efficacemente sintetizzata nel cosiddetto Dilemma di Böckenförde già al centro di un celebre dibattito svoltosi a Monaco di Baviera nel 2004 tra l’allora cardinale e il grande filosofo tedesco Jürgen Habermas: Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non può garantire. In altre parole, ciò che tale dilemma intende indicare è che nessuna convivenza civile è possibile prescindendo da quelle esigenze ed evidenze morali che la tradizione religiosa conserva e veicola in maniera più o meno critica. E se lo Stato prova a sostituirsi a essa ponendosi come fonte di verità morale, esso si trasforma in Stato etico, vale a dire assume una fisionomia autoritaria.
L’intento di Ratzinger sembra essere quello di difendere la dimensione etico-civile della tradizione religiosa cristiana in un Occidente dove le tendenze laiciste, se non esplicitamente anti-cristiane, sono sempre più aggressive soprattutto all’interno delle istituzioni politiche internazionali (Onu, Unione Europea). Ma egli non cessa mai di ammonire i cristiani a non cedere alla tentazione fondamentalistica di ogni teologia politica, quella di costruire un ordine politico e sociale perfettamente giusto mediante l’identificazione della legge divina con quella civile. Ritorna qui l’idea filosoficamente più pregnante del Ratzinger-pensiero, quella della sinergia tra fede e ragione, dell’opera di purificazione reciproca che esse sono chiamate a svolgere per evitare di cadere nel fideismo da un lato e nel razionalismo dall’altro.
Il cristianesimo in Occidente ha contribuito a formare l’ethos civile e continua a svolgere tale opera in dialogo con altre tradizioni religiose e culturali. Lo spazio pubblico costituito da tale dialogo non può e non deve essere neutralizzato dal punto di vista religioso – come vorrebbero molti laicisti. Lo ha affermato con grande chiarezza lo stesso Habermas: non si può chiedere ai cittadini credenti di rinunziare alle proprie esigenze ed evidenze morali nel dibattito pubblico, altrimenti li si porrebbe in una condizione di minorità, divenendo cittadini di serie B. Non solo: lo stesso dibattito pubblico sarebbe impoverito da questo forzata neutralizzazione, visto che ci sono dimensioni morali della realtà che non si riescono a cogliere senza un punto di vista e un linguaggio religiosi.
In ultima istanza, al cuore della questione sta una parola, quella che compare nel titolo del volume: coscienza. Lo Stato moderno nasce dallo choc delle guerre civili a sfondo religioso con l’intento di neutralizzare il più possibile lo spazio pubblico da ogni forma di convinzione religiosa. Da questo punto di vista la coscienza rappresenta un fattore di rischio, un elemento di turbamento dell’ordine sociale e politico. Ma la storia del ’900 ha mostrato che tale tendenza neutralizzante conduce lo Stato verso forme totalitarie che hanno cercato di eliminare nel terrore dei lager di vario colore ideologico l’essere umano con il suo carico di spontaneità e di libertà. A tale terrore totalitario hanno saputo resistere coloro la cui coscienza morale si è saputa opporre come un’istanza di assolutezza e con una disponibilità al sacrificio estremo.
Il compito teorico oggi è quello di ripensare la nostra convivenza civile considerando la coscienza come risorsa e non più come problema.