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Home » Cultura » Storia » LA STORIA/ “Scrivo per farmi perdonare”: se i detenuti vanno a scuola di scrittura…

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LA STORIA/ “Scrivo per farmi perdonare”: se i detenuti vanno a scuola di scrittura…

Carmelo Greco
Pubblicato 30 Gennaio 2011
penna_lettera_R400

Fotolia

Per comunicare i detenuti possono solo usare carta e penna. Nasce così a Forlì l’idea di un laboratorio di scrittura creativa nella Casa circondariale. Ne parla CARMELO GRECO

Ai detenuti è vietato l’uso del telefonino. Anche Internet rimane fuori dalle loro celle e dagli spazi comuni. Niente sms e chiamate, niente e-mail. Tocca prendere carta e penna se si vuole comunicare con il mondo esterno. Da qui la grande importanza data alla posta tradizionale: le lettere solitamente sono una modalità diffusa per tenere i contatti con chi vive fuori dal carcere. Non sono però soltanto i rapporti epistolari che spingono a tenere una biro tra le dita: è l’esigenza stessa di esprimersi, che nasce dal desiderio di rivolgersi a un pubblico più ampio dei compagni di detenzione.


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Se ne è accorta Stefania Mazzotti, giovane insegnante che, insieme ad alcuni volontari del Centro di solidarietà, ha promosso dal 16 maggio 2009 al 19 giugno 2010 un laboratorio di scrittura creativa nella Casa circondariale di Forlì. «A ognuno dei partecipanti – spiega la docente – abbiamo affidato due quaderni: uno che tenevo io per poi trascrivere al computer i loro testi e uno che tenevano loro in cella. Un ragazzo continuava a chiederne altri. E siccome non ne capivo la necessità, mi ha mostrato i quaderni: erano già pieni di appunti e annotazioni».


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Gli incontri del laboratorio si sono succeduti con cadenza quasi quindicinale, introdotti ogni volta da parole “stimolo” (libertà, ricordo, realtà, incontro, sogno, abitudine ecc.) e seguiti dalla stesura di brani da parte dei reclusi nell’arco di circa due ore. Brani laconici, ampi, schietti, meditati, che adesso sono stati raccolti integralmente nel volume Parole scatenate (Itaca, Castel Bolognese 2010, 11 euro).

«Il racconto di episodi della propria vita – sottolinea nell’introduzione al libro Rosalba Casella, direttrice della Casa circondariale – è accompagnato spesso da una riflessione critica sull’esperienza stessa, secondo un metodo importante nell’educazione degli adulti, che è quello di favorire un apprendimento esperienziale». Nelle ultime pagine, a Stefania Mazzotti che chiede le impressioni dei corsisti dopo un anno di lavoro, M.R. risponde: «Ogni parola scritta mi permette di esprimere la mia afflizione per il male commesso. Come attingere acqua da questo pozzo che oramai si è esaurito? Ogni parola scritta rimane, ogni parola ascoltata rimarrà?». In altri termini, M.R. è del parere che quello che viene fissato sul quaderno abbia una forza maggiore rispetto a ciò che può essere condiviso oralmente. Scripta manent, certo, ma anche qualcosa in più.


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Francis Scott Fitzgerald (non a caso citato nell’epigrafe di Parole scatenate) sosteneva che «non si scrive per dire qualcosa; si scrive perché si ha qualcosa da dire». Qualcosa come, ad esempio, «l’afflizione per il male commesso». Non solo. Un laboratorio di scrittura creativa impone l’argomento e i tempi. Nessuno è obbligato a prendervi parte. Però, una volta cominciato, ci si deve piegare alla regole del gioco. La prima delle quali implica la selezione di pensieri e fatti. Non si può scrivere tutto ciò che si vorrebbe. Bisogna scegliere in base a una gerarchia che lo scrivente ricava dal proprio vissuto e da ciò che ritiene più importante.

Nei testi del percorso le figure del padre e della madre, dei figli, della moglie, degli amici, affiorano continuamente a prescindere dall’età, dalle condizioni socioeconomiche, dal tipo di pena che si sta scontando o dal fatto che si è in attesa di giudizio. Così come termini di uso comune vengono liberati dalle catene del vaniloquio (da cui il titolo della raccolta), riacquistando vitalità e spessore. Scrive A.B.: «Con le mani ho toccato i soldi, la mia mamma, la droga, i miei figli». Oppure M.R.: «Cerco di avvertire la Presenza nelle ferite altrui e nelle mie. Ho un sogno ora: che il buon Dio sia attento alla mia voce, che il mio cuore si scaldi tra le sue mani». Considerazioni semplici che lasciano intravedere una coscienza in lotta contro la peggiore forma di prigionia: l’idea che sia impossibile cambiare vita. Per questo ritornano gli affetti più cari e ci si affida all’Onnipotente. Perché rendono ragionevole continuare a combattere.


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