Il bene comune come principio di riferimento dell’agire sociale trova la sua motivazione nella circostanza che la persona umana deve essere intesa come un fine e non come un mezzo, in quanto ogni forma di collettività (società) esiste solo perché “prima” vi è la persona e, a sua volta, quest’ultima è ontologicamente un essere sociale in quanto nasce da altri, è inizialmente accudita da altri e, successivamente nella normalità dei casi, ha necessità di relazionarsi con altri. Proprio per dare consistenza all’esigenza di socialità è necessario che prima e durante il relazionarsi della persona con gli altri si generino valori (beni) condivisi, altrimenti l’ordine delle reciproche relazioni degenera in contrapposizioni, in rotture e in prevaricazioni.
Dal che possiamo derivarne che la ricerca di valori condivisi è un’esigenza naturale e, quindi, un bene comune, ovvero si sostanzia in un’esigenza di giustizia naturale che ha come misura l’equità dei risultati. L’equità, infatti, deve essere intesa come un’applicazione della legge naturale in un prestabilita congiuntura. La legge naturale permette all’uomo di scoprirsi come essere morale in quanto in lui è connaturato (è nel “cuore”) l’imperativo che è occorre fare il bene ed evitare il male così come si legge nella lettera ai Romani: “Quando i pagani… per natura agiscono secondo la legge… dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori”.
Il bene comune come strumento di equità diviene così una sorta di “testimone della coscienza” (Giovanni Paolo II) che, alla luce della legge naturale, si trasforma in un giudizio pratico su ciò che è possibile o meno fare e per giudicare le azioni messe in essere, giacché “la regola della vita associativa è la forza normativa che esercita la verità circa il bene comune nei confronti della libertà di ogni associato. Se non esistesse un bene comune, inevitabilmente il diritto, la norma non sarebbe alla fine che l’imposizione del più forte sul più debole” (C. Caffarra).
L’equità, infatti, non si riporta solo all’astrattezza della cosa giusta, ma va oltre per osservare attentamente la realtà anche attraverso gli occhi del “cuore”, ovvero di quell’a priori che ci permette di effettuare un ragionamento e ci costringe ad esprimere un giudizio morale sulla realtà come atto testimoniale della coscienza. Quando si abbandona “il dire del cuore” si mette in essere una posizione tipicamente riduzionista che non tiene presente tutti i fattori in gioco e per questo non completamente ragionevole in quanto sfugge alla complessità del reale e, di conseguenza, non è in grado di dare risposte soddisfacenti.
Queste azioni, infatti, sono carenti di pietas, di compartecipazione, ovvero di interesse vero per la collettività; esse, spesso, sono radicate nel pre-giudizio ideologico che ha la pretesa di assolutizzare la sua parzialità riducendo forzosamente la complessità del reale ad un suo comodo progetto lineare. L’ideologia, spesso, tacita la legge naturale riducendola a mero preconcetto e la trascura anche nella formulazione del diritto positivo, rendendo, così, la stessa norma destinata a governare la realtà non solutiva della domanda che sortisce dalla complessità del reale. Noi, invece, siamo convinti che solo il rispetto della legge naturale genera soluzioni che soddisfino contemporaneamente il bene del singolo e della collettività. Il bene comune si esprime tramite il talento di ciascuno non solo nell’interesse proprio, ma avendo cura dell’interesse degli altri, esso è attento agli effetti che produce ed è pronto a rendere eque che le condizioni che genera.
Nella Prima lettera ai Corinzi si legge: “A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune”. Il che sottolinea che “ciò che è mio” trova la sua verità ultima e piena, quando viene utilizzato avendo cura della destinazione universale dei beni per il quale la proprietà non è un fine bensì un mezzo. Dal che sortisce che il bene comune non “è ricercato per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo in essa possono realmente e più eticamente conseguire il loro bene” (Caritas in veritate,7). Il bene comune è di tutti e di ciascuno, ma, in ogni caso, resta comune l’impegno di soluzione. Questo è talmente vero che se il fondamento di ciascuna azione sociale non fosse il bene comune, allora sarebbe potenzialmente foriera di ingiustizia e solleciterebbe le diversità tra gli uomini e gli aggregati. Il non postulare il bene comune è foriero di ogni tornaconto e prevaricazione.
Quando la libertà è condizionata dal tornaconto e, quindi, dall’assenza di attenzione (apertura) verso l’altro, allora si origina disuguaglianza, si crea ingiustizia e si incunea la separazione sociale, in quanto prevale “un attaccamento a se stesso per non dire un ripiegamento su di sé finanziario ed economico che implica al tempo stesso errore intellettuale e una deviazione bassa e immorale dei sentimenti e della volontà” (Pio XII).