Tombe. Ingressi di cimiteri. Navi naufragate, inghiottite da lame di ghiaccio. Rovine di chiese e monasteri. Case divorate da un incendio. Nebbie che si stendono fitte sul mondo. Neri corvi che svolazzano alle ultime luci del giorno. Croci che si stagliano su vette aguzze. Gufi e civette appollaiati su una bara. Funerali, compreso quello di se stesso… Insomma, Caspar David Friedrich (1774-1840), il pittore emblema dello spirito romantico, non era certo un allegrone. Il che non ha impedito di farne una star mediatica e un’icona pop, lungo questo 2024 in cui la Germania ha celebrato i 250 anni dalla sua nascita con grandi mostre ad Amburgo, Berlino e Dresda (le più visitate nella storia della Germania!), più altre minori a Greifswald e Weimar.
L’anniversario, però, ne ha fatto per molti un ecologista ante litteram e un profeta della sostenibilità (lui, per il quale la natura era semmai la porta che dava accesso a Dio!). Letture che censurano la domanda di senso che Friedrich poneva, con quei suoi quadri che inquietano e affascinano. E proprio per indagarne i fondamenti teologici e culturali, la Facoltà Teologica del Triveneto ha organizzato a Padova il 17 dicembre il convegno Caspar David Friedrich indagatore dell’umano. Verso le fonti di un’arte sulla soglia dell’Assoluto, con relazioni di Andrea De Santis, Francesco Trentini e Alberto Peratoner (info tel. 049664116, www.fttr.it).
Malinconico pittore dell’infinito? Austero luterano alieno da ogni compromesso? Nostalgico indagatore del sublime? Burbero e bigotto moralista (che, però, allevava canarini)? Per indagare il “mistero Friedrich” ne ho ripercorso le tracce, visitando le mostre a lui dedicate, i luoghi dove visse e i paesaggi che lo ispirarono, dalle irreali rocce della Svizzera sassone vicino a Dresda alle bianche scogliere dell’isola di Rügen, sul Baltico. Occasione per riflettere sul rischio di troppo idealizzare, laicamente e religiosamente, un pittore rigorista oltre misura, ossessionato dalla morte, indignato per quanto vedeva attorno a sé, propenso a simbolismi forse troppo programmatici.
Dotato di una fede religiosa granitica ma individualistica, Friedrich aveva una concezione sacrale della pittura che lo rendeva un solitario, proprio come le figure ritratte in quadri che sono quasi un’autobiografia dipinta. “Devo restare solo e sapere che sono solo per vedere e sentire pienamente la natura. Devo arrendermi a ciò che mi circonda, unirmi alle mie nuvole e alle mie rocce, per poter essere quello che sono”, scriveva nel 1821. Rivendicava la solitudine come necessaria, per l’arte e persino per amare l’umanità: “Mi chiamate nemico dell’uomo perché evito la società. Vi sbagliate, io l’amo. Ma per non odiare gli uomini, devo fuggirli”. Non era un misantropo, insomma, ma si opponeva a una socialità obbligatoria, da mistico del pennello interessato, oltre che al visibile, anche all’invisibile, al manifestarsi del divino in una natura da assorbire nel silenzio. “Chiudi il tuo occhio fisico affinché con il tuo occhio spirituale tu possa vedere prima la tua immagine”, scriveva. “Poi porta alla luce ciò che hai visto nell’oscurità, affinché possa agire sugli altri dall’esterno verso l’interno”. Altro che “pittore di paesaggi”. E infatti nei suoi quadri assembla sempre elementi paesistici diversi. Pittore da studio, alieno dall’en plein air, era convintissimo che “l’unica vera fonte dell’arte è il nostro cuore, il linguaggio di una mente pura e infantile. Un linguaggio che non nascesse da questa fonte, non può essere arte”. L’identificazione fra arte e vita era totale: “Quello che l’artista, o l’uomo, è nella vita e nella società, lo è anche nei suoi quadri”.
Natura e religione erano dunque al centro della sua vita, e delle sue ossessioni figurative. La croce del Golgota è una di queste, rappresentata direttamente o simboleggiata da spogli alberi, veri o di navi. Anche quando ritrae personaggi in contemplazione del mare o della luna, mai si tratta di un idillio da “immaginetta”. Friedrich li raffigura sempre di spalle. Non sapeva dipingere il volto umano, come gli fu rimproverato, o non voleva addentrarsi nel mistero dell’uomo, nel suo sguardo? In realtà come disegnatore (solo a 33 anni si dedicò alla pittura a olio) non mancava di qualità. Un ritratto del padre, fatto a carboncino nel 1801, mostra capacità introspettiva. Poi però smise con i volti e passò alle schiene.
Emblematico è il suo dipinto più “instagrammabile”, come si direbbe oggi: il Viandante sul mare di nebbia, che alla Kunsthalle di Amburgo definiscono “la nostra Monna Lisa”. Fa pensare all’Infinito di Leopardi, poesia con la quale condivide lo spirito dei tempi e l’anno di realizzazione: il 1818. Nessuno aveva mai collocato una figura di spalle in mezzo a un paesaggio. Che cosa c’è al di là della nebbia? Cosa scruta il Viandante? Cosa lo ha spinto fin lassù, in abiti da città e con bastone da passeggio? Il suo piede è sicuro, non teme il vuoto davanti a sé, proprio come le tre figure trinitarie di un altro celebre quadro di Friedrich, Le bianche scogliere di Rügen (sempre del 1818!). Eppure arrivare in vetta non dev’essere stato facile. La vita è un’avventura da percorrere senza paura e senza voltarsi indietro. Si è detto che tutto nel quadro è simbolico: la nebbia allude agli errori superati della vita terrena, le rocce rappresentano la fede che dalla terra innalza al cielo, il monte sullo sfondo è un simbolo di Dio. Ma il centro del quadro è il cuore del Viandante, verso cui convergono le linee della montagna.
L’uomo di Friedrich insomma guarda verso l’infinito, inaccessibile alla mente (“Dovresti meditare dalla mattina alla sera dalla sera fino a mezzanotte, e non comprenderesti l’inscrutabile al di là”). Così è in Luna nascente sul mare, in Donna alla finestra, in Uomo e donna davanti alla luna, tutti conservati a Berlino, o in Donna al tramonto del sole esposto a Essen. Quadri in cui più che il paesaggio contano la prospettiva della morte. E della separazione tra uomo e donna. Friedrich si sposa solo nel 1818, a 43 anni, con la 24enne Caroline Bommer, e subito inizia a meditare su quando la morte lo separerà dalla sposa. Il matrimonio non lo cambia, però il viaggio di nozze sul Baltico gli ispira due capolavori, Le bianche scogliere di Rügen e Sul veliero, forse il suo dipinto meno statico, più pacificato. Ma se in Friedrich ogni barca rappresenta l’anima e il mare l’eternità, non sarà che i due sposi sono già protesi sulla prua verso il destino finale?
Nulla di strano per un uomo ossessionato dal sonno eterno. Per tutto l’Ottocento, quando peraltro Friedrich fu quasi totalmente dimenticato, la sua opera più nota non fu né il Viandante (presentato in pubblico solo nel 1959!) né le Bianche scogliere, ma Abbazia nel querceto, dove aveva dipinto il proprio funerale, nei panni di un monaco condotto alla sepoltura tra i ruderi di un’abbazia circondata da querce scheletriche. “Per vivere eternamente, spesso ci si deve arrendere alla morte”, aveva polemizzato con chi lo riteneva un nemico della società. A 13 anni il ghiaccio si era rotto sotto i suoi pattini e suo fratello era annegato per salvarlo: impossibile non sentirsi responsabile di una tale morte. Poi erano seguiti altri lutti: le sorelle, il padre, un figlio nato morto, il suo migliore amico ucciso in guerra. Anche questo, forse, concorse a fare del pittore un monaco obbligato a una pratica ascetica. E proprio il Monaco sulla spiaggia fu l’opera che nel 1810 per prima pose Friedrich al centro dell’attenzione, un quadro disperato, che scandalizzò molti, ma piacque a Schopenhauer e a von Kleist, che vergò: “È come se osservandola ti venissero tagliate le palpebre”.
Friedrich tirava diritto per la sua strada. Scriveva: “Il pittore non dovrebbe semplicemente dipingere quello che vede davanti a lui ma anche quel che vede dentro se stesso. Ma se non vede nulla dentro se stesso, dovrebbe astenersi dal dipingere quel che vede davanti a sé”. Lo affascinava il tempo che scorre in parallelo all’evoluzione religiosa umana. Le stagioni e le ore del giorno rimandano alle età della vita. La nostalgia dell’infinito è nostalgia della morte, cioè dell’aldilà. Patriottismo e mistica cristiana si fondono in paesaggi simbolici, dove ogni elemento rimanda ad altro. Navi ormeggiate alla luce della luna? Sono anime pronte a salpare verso quell’Aldilà che è l’orizzonte marino, per adesso ancorate alla speranza nella vita eterna, sotto una luna piena simbolo di Cristo. Se dipinge rocce, sono il tramite fra la terra e il cielo. Un’alta montagna non può che essere Dio stesso. Le rovine di un’abbazia rimandano a un cristianesimo ormai superato, mentre un verticalissimo abside gotico esorta a propugnare una Chiesa più “progressiva” e adeguata ai tempi. I rami di querce senza foglie rimandano invece al paganesimo che non dà frutti.
A volte, il divino si manifesta nelle nevi e nei ghiacci della natura nordica, giammai nelle estenuate bellezze italiane, da cui Friedrich rifugge quanto dall’ora meridiana, dal sole, dall’eccesso di luce. A Dresda, dove passò la maggior parte dei suoi anni, usciva solo al tramonto, quando i colori del cielo rimandano un barbaglio della bellezza ultramondana. Luce che riversava poi nei quadri, fino al mirabile gioco di riflessi dell’ultimo capolavoro, La grande riserva, dipinto già da malato. La luce crepuscolare è la bellezza del divino che si manifesta nel momento della morte. Una luce tedesca, nordica, non mediterranea: Friedrich declinò sempre l’idea del “viaggio in Italia”, sogno degli artisti dell’epoca. A lui bastavano la Sassonia e il Baltico, suoi luoghi di desiderio, nostalgia, ispirazione e rifugio, in un mondo che sembrava andare a pezzi, tra la fine dell’era napoleonica e i nuovi assetti sanciti dal Congresso di Vienna. Paladino dell’identità germanica, non c’è da stupirsi che fu molto ammirato dai nazisti. A dimostrazione di come la sua opera si presti a essere strumentalizzata, ieri come oggi (a Dresda, tanto per dire, c’è uno studio che realizza tatuaggi riproducendo sulla pelle il ritratto del pittore con una sua opera), ma anche di quanto sia capace di ispirare: sapevate che gli devono qualcosa sia il Bambi di Walt Disney sia Aspettando Godot di Samuel Beckett?
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