“Crear rovine senza usar le mine”: potremmo rendere così il modo di dire con cui i cittadini della Germania Est (Ddr) indicavano la condizione di molte loro città dal punto di vista urbanistico. Negli anni del dopoguerra, infatti, anche la neonata Ddr era semisepolta sotto le macerie dei bombardamenti: sul suo territorio si trovavano oltre 4 milioni e mezzo di case in rovina e altri 750mila edifici erano da demolire. Per mancanza di fondi, alla ristrutturazione dei centri storici e degli edifici antichi si preferì la costruzione sistematica di nuove case popolari.
Proprio quarant’anni fa venne lanciata una sorta di “Ina-casa” socialista, il piano imponente di edilizia pubblica che avrebbe dovuto risolvere il problema degli alloggi e tener buona la popolazione dopo la costruzione del Muro (1961) e la chiusura delle frontiere.
La skyline della Ddr “risorta dalle rovine” (secondo le parole dell’inno nazionale) assunse pian piano la forma massiccia dei prefabbricati in cemento armato, come del resto avveniva negli altri Paesi del blocco orientale. Si aggiunsero, altrettanto standardizzate, le infrastrutture come asili, scuole, case della cultura e minimarket. Prefabbricato fuori, prefabbricato dentro: anche l’arredamento era su misura, e solo la fantasia dell’inquilino poteva superare la monotonia delle pareti-armadio Karat.
L’idea del prefabbricato risale ai primi del ’900, non fu appannaggio degli Stati socialisti e nel dopoguerra si diffuse un po’ in tutta Europa; ma è nel blocco orientale dove l’estetica cedette il passo all’ideologia e l’accuratezza al ritmo bolscevico: appartamenti uguali per cittadini tutti uguali, il medico e l’ingegnere dovevano vivere accanto all’operaio e al fuochista (come si vede ad esempio ne Il decalogo del polacco Kieslowski).
La realtà fu però leninianamente più testarda, e anche qui emersero gli innumerevoli problemi della vita condominiale in salsa orwelliana: l’accademico viveva nel prefabbricato ascoltando collettivamente la musica che risuonava da un piano all’altro e dando la buonanotte contemporaneamente ai propri familiari e ai vicini, mentre il funzionario del partito più uguale degli altri abitava nella casetta che era stata del medesimo professore da tre generazioni. L’idillio socialista era oscurato anche dalla reciproca diffidenza, indotta dalla paranoia del regime nei confronti dei propri sudditi, a cui già controllava la corrispondenza, mentre il telefono lo concedeva solo in casi di comprovata fedeltà (prima della riunificazione, solo il 16 percento delle famiglie tedesco-orientali ne disponeva).
I primi edifici “a pannelli” furono introdotti alla metà degli anni ’50 (Berlino, Hoyerswerda), ma è solo dall’inizio degli anni ’70 che nuovi quartieri o intere città (Halle-Neustadt) furono costruiti quasi esclusivamente con i prefabbricati innescando un movimento centrifugo verso i nuovi quartieri-dormitorio. Anche i proprietari delle vecchie case private ancora agibili, a causa della pianificazione economica, si trovarono impossibilitati a reperire materiali per ristrutturarle e operai in grado di farlo, perciò furono spinti a vendere gli edifici allo Stato non appena veniva loro offerto un appartamento in affitto.
Fino all’89 furono costruite quasi due milioni di queste “cassette postali per proletari”, che comunque erano dotate di riscaldamento centrale, acqua corrente, servizi igienici, e rappresentavano un notevole passo avanti per quanti non erano riusciti a scappare all’ovest. Superato il problema dell’orientamento (via e numero) e sotto gli sguardi dei curiosi, l’ingresso nel nuovo alloggio era una piccola festa. Una famiglia di quattro persone aveva diritto a un appartamento di 67 mq, conquistato dopo anni di attesa e lunghe lotte con la burocrazia. L’affitto era irrisorio, sovvenzionato dallo Stato. La manutenzione, altrettanto irrisoria (spifferi, ascensori mal funzionanti, balconi pericolanti).
La cultura del prefabbricato favorì la nascita di nuovi giochi (Il re del condominio) e fu stimolo per il cinema (Panel story della cecoslovacca Chytilova) e per la musica leggera, come il tormentone Su e giù per le scale dello slovacco R. Müller.
Dopo l’89 le nuove democrazie si son trovate a decidere cosa fare di questi falansteri: alcuni sono stati demoliti, altri ristrutturati sia all’esterno che all’interno, ora alleggeriti con tinte pastello, ora ravvivati con colori da riviera romagnola; in alcuni casi sono diventati zone di forti contrasti sociali, o ricoveri di immigrati in cerca di una sistemazione.
Ancor oggi il turista che si reca nei quartieri orientali di Berlino può provare il brivido di vivere per qualche giorno in una “cassetta postale proletaria”: privati e agenzie mettono a disposizione appartamenti ristrutturati, con tutte le comodità. Al turista che volesse immergersi nell’atmosfera del passato e allo stesso tempo trovare qualche idea fantasiosa per arredare il balcone, consiglieremmo invece un giro nel quartiere di Praga-Chodov (metro C).