Non è stata la nostra nazione a produrre la nostra letteratura, ma la nostra lunga tradizione letteraria a «fare» l’Italia, e molto tempo prima che gli stati regionali italiani confluissero nel nuovo stato unificato dai Savoia. Lo scrive Gianluigi Beccaria, piemontese, linguista e storico della nostra lingua nel suo nuovo libro, Mia lingua italiana. Per i 150 anni dell’unità nazionale, da poco in libreria. Cita Isidoro di Siviglia: sono le lingue che fanno i popoli, non i popoli che fanno le lingue. La nostra letteratura, che risale a Dante, Petrarca e Boccaccio, ha prefigurato l’unità dell’Italia molto prima che la politica e gli eserciti cancellassero i confini preunitari.
«Da noi – spiega Beccaria – è stata la letteratura a fondare la nazione. Abbiamo avuto la fortuna di essere nati subito giganti. Dante, Petrarca e Boccaccio hanno dato al nostro territorio polverizzato e diviso un’impronta così forte da durare per secoli».
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Dal punto di vista della lingua parlate, però, l’Italia è il paese dei dialetti.
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Esiste secondo lei il rischio che le «piccole patrie» dei dialetti tornino a prevalere sulla lingua comune?
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Se la lingua italiana continua a darci un codice unitario, quali sono i suoi «nemici»? Ha detto che sta diventando più povera.
Sì, ma non è l’italiano in quanto tale, lingua ricchissima, stratificata, ad impoverirsi. È chi oggi lo parla ad essere culturalmente più povero. La nostra lingua continua ad essere uno strumento straordinario per comunicare tutto quello che vogliamo, e molto più di quello che potremmo immaginare. Non gode di ottima salute dalla parte dello scrivente o del parlato, perché a scuola non si sta certamente facendo tutto quello che si potrebbe per insegnarla bene.
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Lei dice che i classici che si insegnano a scuola sono creatori di memoria storica. Ma gli studenti fanno sempre più fatica a leggerli appassionandosi.
Si può rinunciare ad insegnare la grammatica?
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Assolutamente no. La grammatica è fondamentale ma assai impopolare, perché l’insegnamento di regole, oggi più di ieri, è visto come qualcosa di impositivo. Pensi alla brutta figura che si fa quando si commettono degli errori di ortografia o quando si parla sbagliando gli accenti: è come presentarsi ad un appuntamento con le scarpe infangate. La grammatica è come una convenzione sociale istituita dentro una comunità, e come tale va rispettata. «A me mi piace» non si dice: è un errore.
È un errore e tale deve rimanere, professore?
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E tale deve rimanere. In realtà, non rimane nulla, perché la lingua cambia. Vent’anni fa nessuno avrebbe scritto lui come soggetto, oggi invece non è più sanzionato come errore. Una lingua è un fiume che avanza e che cambia, anche se con molta, molta lentezza.
Ma di fronte a queste trasformazioni inevitabili, dobbiamo scrivere come i classici o assecondare i cambiamenti?
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Curare la lingua per continuare a costruire, fuor di retorica, l’unità italiana?
Certamente. Raffaele La Capria, in una sua pagina de L’armonia perduta, scrive che nel frastuono orrendo delle strade di Napoli il dialetto «tiene insieme la mia tribù», come «l’unico elemento aggregante in questa disgregazione». La lingua ci rende reciprocamente familiari, e infatti non aver avuto l’italiano per tanti anni come lingua di conversazione ma solo come lingua colta, d’élite, ha creato quel senso di distacco che già Leopardi metteva in rilievo. La mancanza di una lingua parlata comune in una paese così variegato com’era il nostro è stata un guaio, perché ha alimentato lo spirito di fazione.
Secondo lei quanto ha influito il lessico cristiano sulla formazione dell’italiano e sulla nostra coesione spirituale?
L’Italia, a differenza della Germania, non ha avuto un Martin Lutero che ha tradotto la Bibbia.
Dobbiamo temere la diffusione dell’inglese?