Il 7 febbraio del 1945 un comando di Gap comunisti attaccava il quartier generale delle formazioni cattoliche e liberali Osoppo alla Malghe di Porzus. Il comandante della formazione e i suoi uomini furono brutalmente uccisi, per la sola ragione di non aver voluto cedere alla pesanti richieste di annessione jugoslave, che erano appoggiate dai comunisti italiani. In tutto si contarono 21 vittime: fu il grave scontro interno alla resistenza italiana. Nel 2010 questo evento (uno dei più controversi della nostra storia recente) è stato al centro di un convegno tenutosi a Udine dal titolo “Violenza e conflitti all’interno della Resistenza italiana. Il caso del confine orientale”. Alcune delle relazioni presentate a quel convegno, riviste e approfondite dagli autori, vengono pubblicate ora nel volume Porzus. Violenza e Resistenza sul confine orientale, a cura di Tommaso Piffer (Il Mulino, in libreria dal 9 febbraio). Il volume contiene saggi di Elena Aga-Rossi, Patrick Karlsen, Orietta Moscarca, Paolo Pezzino, Tommaso Piffer e Raoul Pupo, e sarà presentato oggi in anteprima a Udine (Sala del Consiglio Provinciale, Piazza Patriarcato 3, Udine, alle ore 17). Sul libro e su questo episodio drammatico della storia nazionale IlSussidiario.net ha sentito Patrick Karlsen, autore nel volume del contributo Il Pci di Togliatti tra via nazionale e modello jugoslavo (1941-1948)”.
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L’eccidio di Porzus è da sempre uno degli eventi più discussi della resistenza italiana. Cos’ha reso così difficile elaborarne la memoria come avvenuto per altri episodi della storia nazionale?
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Porzus è spesso accostato a un altro episodio drammatico che si svolse nella stessa zona del Paese, quello delle foibe. A suo parere si tratta di episodi in qualche modo assimilabili?
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Nel volume che si presenta oggi a Udine emerge il problema della posizione del Pci, diviso tra solidarietà internazionale e interesse nazionale. Lei è autore di un importante lavoro sulla politica del Pci sul confine orientale (Frontiera rossa. Il Pci, il confine orientale e il contesto internazionale 1941-1955, Editrice Goriziana, 2010). Come si risolse questa contraddizione?
Su un piano generale, a mio modo di vedere non si risolse affatto. Il Pci di Togliatti fu sempre un soggetto scisso, impegnato nel tentativo di conciliare gli interessi nazionali con quelli del movimento comunista internazionale identificati nell’Unione Sovietica. Senza riuscirci: le posizioni prese dal partito non solo in merito alla questione del confine orientale, ma anche rispetto agli aiuti del Piano Marshall e all’avvio del processo di integrazione europea, lo attestano secondo me in maniera sufficiente. Per quanto riguarda il piano più specifico della frontiera orientale, la soluzione su cui Togliatti insistette maggiormente per Trieste fu l’internazionalizzazione; per l’Istria, invece, considerava scontato che appartenesse alla Jugoslavia dopo la guerra provocata e perduta dall’Italia.
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Quale fu in questo contesto la posizione personale di Togliatti?
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Nella storiografia è stato spesso presentato come l’artefice della completa democratizzazione del partito comunista italiano, è un’immagine che regge alla luce delle ricerche più recenti?
Quanto al lascito di Togliatti nella storia del Pci, direi che senz’altro la sua opera ha contribuito ad abituare alle regole della liberal-democrazia un partito che vi era geneticamente estraneo e avverso. Tuttavia, la sua profonda e convinta adesione allo stalinismo lasciò al Pci un insieme di eredità legate alla concezione del mondo e ai metodi di azione propri di quella cultura politica: per esempio la visione manichea della storia, la subordinazione dei mezzi rispetto al fine, la prassi di delegittimazione radicale dell’avversario, la manipolazione del passato in funzione delle necessità del presente. Furono alcune delle scorie che dallo stalinismo il Pci filtrò a tutta la società italiana, e secondo Viktor Zaslavsky, grande studioso prematuramente scomparso, è su questi aspetti che la storiografia del nostro Paese non ha riflettuto abbastanza. Una segnalazione che mi sembra tuttora valida.
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Le sembra che a quasi settant’anni dall’eccidio si vada nella direzione di una memoria condivisa di questo tragico evento?