Del grande padre della Chiesa Giovanni Crisostomo si tramanda un pensiero fulminante: “Dio nessuno l’ha mai visto”, solo “il Figlio unigenito ce lo ha rivelato”, come recita il Vangelo di Giovanni. Egli ne ha mostrato il volto attraente – scrive Crisostomo – perché permise a quanti gli credettero “non solo di vederlo, ma anche di toccarlo, anzi di assaporarlo, di mordere la sua carne”. È esattamente in questi termini che ne riferisce la poetessa Cristina Campo in Sensi soprannaturali, ora incluso nella raccolta postuma apparsa con il titolo Gli imperdonabili (Adelphi, 1987). Da qui la citazione è ripresa da Giorgio Cracco, nell’introduzione al recente volume di Olschki Del visibile credere. Pellegrinaggi, santuari, miracoli, reliquie.
Il linguaggio dell’antico maestro della fede fiorita nell’Oriente cristiano dei primi quattro secoli è intriso di una crudezza a cui non siamo più abituati. La materialità a cui rimanda sta agli antipodi del politicamente corretto applicato ai canoni del discorso religioso contemporaneo. Sarebbe però del tutto riduttivo abbassare a irruente esagerazione fantastica la dimensione carnale dell’attaccamento al sensibile in cui i vescovi-filosofi delle origini inscrivevano il loro appassionato cristocentrismo, perfettamente eucaristico e sacramentale. La radicalità oltranzista del loro desiderio di comunione con il mistero del Dio rivestito di sembianze totalmente umane è sulla stessa lunghezza d’onda della “follia” amorosa della mistica di ogni tempo.
È quella che traborda dalla poesia infiammata di Iacopone. Filtra nella vertigine dello Stabat mater, nella scena superbamente dolorosa dei Compianti e delle Pietà che affollano la storia dell’arte, della devozione popolare, della liturgia e della loro musica di servizio dispiegata sull’arco dei secoli. Fuori di qui diventano muti i monumenti di fede e di carità costruiti intorno alla memoria del Corpus Domini, nei quadri delle sontuose processioni fiorite dalla fine del Medioevo in poi così come nel teatro delle sacre rappresentazioni che ne sono diventate dovunque il contorno esuberante.
Senza la tensione patetica che si sprigionava da queste forme tenacissime della mentalità collettiva non si sarebbe mai arrivati all’Ave verum di Mozart. Nessuno, forse, si sarebbe mai sognato di allestire le grandiose scenografie meditative dei Sacri Monti italiani, dei Calvari e delle Vie crucis che fiorirono da un estremo all’altro dell’Europa fino alla chiusura dell’età barocca, e poi ancora oltre. Non si sarebbe mai acceso il fervore, insieme dotto e contadino, del Sacro Cuore, che ha mobilitato masse intere di fedeli degli ultimi due secoli, e tutto l’immaginario simbolico del culto cristiano si presenterebbe oggi levigato fino al rischio di una piattezza desolata, desertificato come una nuda parete senza segni di rimando e senza nessun appiglio per la viva memoria degli affetti: sarebbe un intellettualismo ridotto a pallido biancore di matrice dispoticamente iconoclasta, un trionfo di unilaterale calvinismo dualista dell’invisibile.
Se si scava nel profondo della storia cristiana che ci siamo lasciati alle spalle, non si può che trovarsi di fronte, dovunque si guardi, all’imponenza ineludibile riconosciuta ai segni materiali della figura di Cristo. E la sua vicinanza al destino della vita dell’uomo ha trovato la chiave suprema di appoggio intrecciandosi alla continua riattualizzazione della memoria del sacrificio passato attraverso la spogliazione della Passione per poi fiorire, come esito inevitabile, nel miracolo della Resurrezione. Non si corre il rischio di esagerare affermando che è nello stare davanti senza timorose riserve alla croce e al corpo piagato del Redentore che la fede cristiana ha trovato una delle sue fonti più trascinanti di alimentazione.
Non per niente il gesto della croce tracciato materialmente sul corpo è sempre stato il riverbero più elementare di una coscienza rischiarata dall’amore della tradizione cristiana. Con la croce decoriamo gli ambienti e lo spazio fisico che noi abitiamo. Persino arriviamo a farne un segno ornamentale per abbellire il vestito e proteggere l’integrità del nostro organismo. Dopo tutto, non è un caso se al centro della triplice corona del rosario tradizionale stanno ben saldi i misteri dolorosi. Alla fine, non possiamo mai dimenticarlo, si spalancano lasciando il posto a quelli gloriosi. Ma senza un costato ferito, senza quel sangue che in un modo strano e sorprendente continua a essere versato per scorrere nel cuore del mondo non ci sarebbe il mattino radioso di Pasqua, né la letizia e la speranza potrebbero irrompere dilagando fuori dalla prigione dei sepolcri della morte elevata a ultima parola sul futuro che ci attende.
Questa è la cornice che dobbiamo avere presente per cogliere la portata di un prezioso volume da poco reso disponibile grazie all’intraprendente capacità di iniziativa di una società di studi storici che ha fatto dell’amore per la ricchezza della tradizione di cui siamo custodi troppo spesso distratti il centro dei propri interessi: Crucem tuam adoramus. Percorsi devozionali fra Nord Ovest d’Italia e Canton Ticino. Espressioni d’arte, cultura, fede e religiosità popolare (Magazzeno storico verbanese-La Compagnia de’ Bindoni, dicembre 2011).
Con un bagaglio impressionante di dati, di solidi riferimenti concreti a persone, comunità e ambienti di un vasto territorio geografico, il concerto di voci riunito nel libro che segnaliamo documenta come il desiderio collettivo di una familiarità insistitae continua con il segno della croce di Cristo abbia generato una varietà incredibile di forme, di combinazioni visive, di richiami a pratiche cerimoniali da assecondare, con il loro supporto rigoglioso di preghiere codificate, di musiche, di canti, di gesti di adorazione, di atti penitenziali e di pellegrinaggio, sorgenti di una memoria cristiana nutrita dall’ostentazione delle immagini, dalle passioni del sentimento, capace di assorbire il cuore prima ancora che la mente calcolatrice degli attori umani. Dove si puntava a cementare una memoria fatta di immedesimazione in una storia da ricalcare e da rivivere, calandosi nei passi percorsi, uno dopo l’altro, dal divino Maestro che ci si disponeva a seguire.
Le premesse remote di una parabola creativa che ha coinvolto l’intero orizzonte di uno dei cantieri fondamentali in cui si è plasmata l’identità italiana moderna – la ricca e popolosa area che dalle terre piemontesi e lombarde si spinge fino alle zone alpine di confine con il mondo svizzero e l’Impero asburgico – sono paragonabili a radici incuneate nei primi movimenti di sviluppo della presenza della fede cristiana a nord di Roma. Ma da questi nuclei iniziali si è dipanata una lunga e ostinatamente coerente vicenda storica, che ha conosciuto un salto di qualità decisivo nel momento in cui si è assistito all’esplosione del realismo drammatico nell’arte sacra, nella catechesi oratoria e nella teatralità suggestiva del linguaggio religioso dell’ultimo Medioevo e del Rinascimento.
Il lento sedimentarsi di una pietà affettiva e “sensibile”, che sfruttava ogni mezzo possibile per rafforzare la presa di una proposta educativa fondata sulla volontà di identificarsi con la realtà oggettiva di Cristo, resa accessibile all’uomo che viveva nel presente, ha poi conosciuto un secondo momento straordinario di fioritura. È quello che si ricollega alle metamorfosi che il governo della vita del popolo cristiano ha conosciuto a seguito della svolta del concilio di Trento, con il graduale emergere di un nuovo stile di impostazione dei rapporti tra il mondo religioso e la società secolare che esso aveva di fronte. La Controriforma, nelle sue varianti più precoci conosciute proprio nell’Italia del nord, comunque sempre in stretto rapporto con Roma, lanciò un “rinnovamento” innestato sul tronco di una tradizione antica, contribuendo a farla crescere, a valorizzarne le risorse più affidabili, a estendere la sua capacità di modellare i pensieri e i comportamenti delle grandi realtà popolari del mondo cattolico. Si scatenò l’impulso di una ambiziosa ondata di rievangelizzazione, a partire dalle fondamenta della fede, dove le devozioni esteriori delle confraternite e i culti rivolti all’uomo della Passione si allearono alle nuove risorse della stampa, del catechismo di massa, dell’accesso alla cultura scritta, promuovendo l’interiorizzazione mediata dalla lettura silenziosa, dall’esame di coscienza, dalla pratica intensificata dei sacramenti.
Ma non è possibile dimenticare che l’energia trasformatrice dei seguaci di san Carlo Borromeo e dei primi gesuiti non ci chiuse con la crisi dei decenni centrali del Seicento, quelli della peste descritta nei Promessi sposi. La costruzione della nuova religione cattolica moderna non si interruppe. E i germi della vasta opera di risanamento della Chiesa, anche nei suoi contesti più periferici, continuarono a essere sviluppati nelle loro potenzialità positive, mantenendo florida una religione che tendeva ad avvolgere la totalità della società e a circondare da ogni lato la vita degli individui. Il declino di vitalità e le vere fratture sarebbero arrivate solo più tardi, dopo l’attacco della Rivoluzione e delle ideologie della secolarizzazione all’impianto “confessionale” dell’Antico Regime, con l’avanzata della nuova etica borghese e di una inedita civiltà del lavoro orientata all’accumulo dei profitti prima ancora che dei beni e dei valori.
Sarebbe interessante seguire anche sul versante “mariano” della storia della devozione religiosa questo profilo evolutivo che ci proietta fino allo svuotamento interno della tradizione medievale e moderna portato a compimento dal nostro Ottocento e più ancora dal Novecento. Ma su questa ulteriore verifica ci illumina un altro importante volume che ha appena fatto la sua comparsa. Merita almeno l’onore della citazione elogiativa di chiusura: Nigra sum. Culti, santuari e immagini delle Madonne nere d’Europa, a cura di L. Groppo e O. Girardi, Ponzano Monferrato, Centro di documentazione dei Sacri Monti, Calvari e complessi devozionali europei, 2012.
(in memoriam di Salvatore Alvaro)