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Home » Cultura » Storia » STORIA/ Lechia Danzica, la squadra di calcio che osò sfidare il comunismo

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STORIA/ Lechia Danzica, la squadra di calcio che osò sfidare il comunismo

Al 38’ del secondo tempo Boniek siglò il terzo gol che sancì la vittoria della Juventus e sul vecchio stadio del Lechia di Danzica calò il silenzio. ANGELO BONAGURO

Angelo Bonaguro
Pubblicato 8 Novembre 2012
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Lech Walesa insieme ad altri tifosi del Lechia (Immagine d'archivio)

Al 38’ del secondo tempo Boniek siglò il terzo gol che sancì la vittoria della Juve e sul vecchio stadio del Lechia di Danzica calò il silenzio. I 40.000 tifosi polacchi, stipati in una struttura che ne poteva contenere poco più di 10.000, ancora sognavano la rivincita dopo la bruciante sconfitta di 7 a 0 subita a Torino il 14 settembre di quello sfolgorante 1983 che per la squadra bianco-verde significò il salto internazionale nella Coppa delle Coppe. Ma al primo turno al Lechia era toccata una Juventus fortissima, in cui giocavano ancora i campioni del mondo dell’82: Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli, Rossi, e i due «stranieri» Platini e Boniek. Per prepararsi alla Coppa, il Lechia era sceso in Italia per alcuni incontri amichevoli accompagnato da un centinaio di tifosi che furono ricevuti anche da Giovanni Paolo II, nonostante le obiezioni degli «ufficiali politici». Alcuni tifosi ne approfittarono per chiedere asilo politico – era stato appena revocato lo stato d’assedio che aveva stremato la Polonia dall’81 – e l’aereo rientrò in patria con diversi posti vuoti.


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Il Lechia di Danzica non era una squadra come le altre: in Polonia era considerata la squadra di Solidarnosc e la sua tifoseria un ricettacolo di oppositori al regime. Don Jaroslaw Wasowicz tifa Lechia sin dalle elementari (pare che si tolga la sciarpa bianco-verde solo durante le funzioni), e ha scritto un libro dal titolo inequivocabile: «La Solidarnosc bianco-verde, il fenomeno politico dei tifosi del Lechia». «Chi non ha mai vissuto a Danzica – spiega – non può capire: il nostro stadio era considerato uno dei bastioni dell’opposizione anticomunista. Così quando la squadra fu promossa in prima divisione e i tifosi la seguivano nelle varie città, quella brezza marina di libertà si diffuse in altre località del paese». In un articolo apparso sul mensile dell’Istituto polacco per la memoria nazionale, l’allenatore di allora, Jerzy Jastrzebowski, ricorda la simpatia con cui erano accolti i tifosi bianco-verdi, che «spesso durante le partite scandivano slogan anticomunisti» anche piuttosto pesanti, come «Polizia=Gestapo», «Abbasso il comunismo», «Odio gli ZOMO», accompagnati da altri cori che invece inneggiavano al sindacato libero. Era un momento catartico capace di aggregare gli oppressi, di farli sentire uniti «come Davide contro Golia»: «Quando sfilavamo per le città a festeggiare una vittoria, la gente rispondeva ai nostri cori facendo con le dita il segno “V”», racconta un tifoso.


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E dire che lo sport nei paesi del blocco orientale avrebbe dovuto contribuire a formare l’«uomo nuovo», sano, abile, tenace, in grado di superare difficoltà e disagi tipici della costruzione del socialismo… In Polonia quest’illusione durò poco, e dopo i primi anni in cui i giovani venivano spinti alla competizione, già dalla metà degli anni ’50 lo stato preferì non impegnare altri fondi per lo sport «popolare», preferendo sostenere l’agonismo professionista. A differenza di quanto accadeva nella vicina Germania Est, dove il compagno Ulbricht in persona aveva lanciato il motto: «Faccia sport ogni persona / una volta a settimana», e dove si setacciavano sistematicamente le scuole per produrre campioni a suon di doping…


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Ma torniamo all’autunno dell’83. Dopo la batosta di Torino, i polacchi non si persero d’animo e sperarono nel ritorno, previsto il 28 settembre, a Danzica. Le autorità comuniste erano preoccupate che una semplice partita potesse trasformarsi in una protesta pubblica rilanciata a livello internazionale, visto che c’era la diretta RAI. Così furono prese misure per evitare spiacevoli imprevisti: i servizi di sicurezza fecero da angeli custodi ai giornalisti italiani per timore che la nostra stampa si interessasse troppo agli sviluppi della situazione polacca (la «Gazzetta» pubblicò persino un’intervista a Walesa). Le riprese televisive non dovevano essere lasciate al caso, occorreva evitare di inquadrare «interventi ostili di gruppi legati all’underground politico o che confermassero la presenza allo stadio di persone note per interventi antisovietici» – ossia di Walesa. Una squadra di agenti ebbe il compito di monitorare tutte le manifestazioni della tifoseria e prevenire striscioni e cori invisi al regime.

Simili provvedimenti erano già stati presi l’anno prima ai Mondiali di Spagna, che in Polonia eran stati trasmessi con 5 minuti di differita in modo da avere il tempo di «pulire» le riprese. Danzica fu divisa in vari settori, furono sorvegliati lo storico ingresso n. 2 dei cantieri Lenin e la (ex) sede di Solidarnosc, nello stadio erano presenti 200 agenti in borghese dotati di telecamere e autorizzati a strappare striscioni irregolari. Fu allertato il personale medico e persino i tribunali cittadini, in totale all’operazione parteciparono oltre 1500 agenti con tanto di blindati, cannoni ad acqua e cellulari.

Spossati da mesi di stato di guerra, i tifosi evitarono però proteste clamorose. «Eravamo seduti nella calca – ricorda uno di loro, – e poi improvvisamente il passaparola: c’è Walesa in mezzo a noi! Non ho mai sentito tante ovazioni per lui come quella volta! Cominciammo a scandire slogan patriottici e anticomunisti… Credo che la polizia non se l’aspettasse».

Se l’aspettavano eccome, anche se non riuscirono a zittire tutti quanti perché – come scriveva Bulgakov – la realtà è testarda.


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