Don Julian Carron, con la sua lettera a Repubblica, ha ripetuto, e quindi proposto a chi la leggeva, il gesto introduttivo alla meditazione cristiana e al Mistero della Messa: Signore pietà.
Atto sorprendente in un’epoca e un costume in cui l’esibizione di forza e irreprensibilità ( come di tutto ciò che cattura lo sguardo altrui: bellezza, sfrenatezza, successo), è esercizio e quasi dovere quotidiano, all’interno di quel culto dell’immagine ansiosamente praticato dai più (e, per quel che ho capito, presente anche tra le accuse mosse nella campagna politica contro il Presidente della Lombardia, Roberto Formigoni e Comunione e Liberazione).
Kyrie eleison è però anche gesto e espressione indispensabile, fondativa dell’esperienza cristiana, personale (per quanto misera, come la mia) e collettiva. La Passione, la caduta, l’umiliazione e la vergogna è passaggio non evitabile perché ci sia Resurrezione e Pasqua. Mi viene in mente l’urgenza della “pulizia dalla sporcizia” in cui si trovava la Chiesa che Joseph Ratzinger chiese di condividere con lui a chi lo seguiva nella via Crucis del suo primo venerdì santo da Papa.
Non c’è dinamica, né movimento spirituale (ma neppure cognitivo o psicologico), senza questa alternanza tra l’inorgoglirsi della conquista e lo svelamento della propria inconsistenza. Senza di essa ogni sviluppo si ferma; subentra invece l’arresto, la stasi, il gonfiarsi di potenza vanesia, portatrice di guai per tutti.
La lotta tra la luce della grazia e l’oscurità della pesantezza, che segna l’esperienza cristiana dalle origini ad oggi, non può che essere oggetto costante di meditazione e di supplica, soprattutto per chi sente il dovere di impegnarsi per gli altri esseri viventi, nel mondo. Riferirsi a Cristo, in modo sempre parziale e imperfetto, significa essere ben consapevoli che, subito dopo il Battesimo, appena avvicinatisi alla comprensione del suo significato, ci sarà da andare nel deserto e confrontarsi con le sue tentazioni di Satana: la smisuratezza e la fantasia di onnipotenza. Che vengono declinate in modo diverso in ogni tempo e in ogni persona, ma non risparmiano nessuno.
Si tratta di una prova spirituale, civile e psicologica non evitabile, e nella quale, da quanto mi sembra di aver capito nell’insieme delle mie esperienze formative e professionali, si gioca il senso di gran parte della nostra esistenza di uomini. Come ricordava Simone Weil nessun essere umano sfugge alla necessità di concepire al di fuori di sé beni verso cui volgere il proprio desiderio. Ma i più sono idoli, fallaci e pesanti, deboli creazioni delle nostre pulsioni e fantasie, Dio solo è grazia, radice, sviluppo e speranza.
Quando non avviene l’esperienza religiosa, la devozione sincera e pronta al sacrificio verso il Sé, il centro della personalità individuale, con le sue molteplici risorse, e nel quale è sempre presente la spinta al servizio dell’altro, aiuta a ripararsi dall’invasività degli idoli, rinnovati e proposti in continuazione dai modelli e dalle proposte del tempo.
Nessuno, però, è al riparo. Tanto meno chi espone e rischia se stesso, anche consapevolmente, nella relazione con gli altri, e per gli altri.
Vergogna, soprattutto di Sé, e pietà, per l’altro e per sé, anche se poco praticati sono un dono prezioso di Cristo al mondo. Senza di essi non c’è l’amore.