Nessuno o quasi, in occidente, parla più del comunismo. L’ideologia che ha dominato le menti di milioni di uomini è oggi un discorso impopolare, un bagaglio di idee perfino troppo «forti» per gli anni nei quali si raccolgono i cocci del pensiero debole. Eppure, vale la pena di interrogarsi su quanto e come la sua eredità spirituale condizioni ancora la memoria storica dell’occidente. Un capitolo speciale potrebbe essere considerato quello dei martiri della fede cristiana sotto il comunismo, ai quali sembra toccata la sorte di divenire «estranei» alla storia quanto il comunismo stesso. Di questi temi IlSussidiario.net ha parlato con Philippe Chenaux, storico della Chiesa, docente nella Pontificia Università Lateranense, autore de L’ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin a Giovanni Paolo II (Carocci 2011).
Professor Chenaux, alla luce del suo ultimo libro qual è secondo lei il rapporto profondo tra il cristianesimo e il comunismo? In che cosa si differenzia la sua tesi da quella ben nota delle «verità diventate pazze»?
Riprendo, in effetti, un giudizio del filosofo Jacques Maritain che cito in esergo. Io credo che non si possa pensare il comunismo al di fuori di una cultura che è quella giudaico-cristiana. Come dice Maritain, si trova nei valori del comunismo (giustizia sociale, dignità dell’operaio, etc.) un «residuo» dell’eredità giudaico-cristiana separata da tutto il resto di questa eredità e inserita, per così dire, in una concezione materialista e atea dell’esistenza. È questo residuo a spiegare una buona parte del formidabile potere d’attrazione sulle masse in Occidente, e specialmente negli ambienti cattolici.
Il tema dei martiri della fede sotto il comunismo è molto sentito ad Est e poco sentito ad Ovest, dove è confinato ad una pubblicistica spesso apologetica. Sembra che si sia persa la memoria delle vicende di personaggi come Mindszenty, Beran o, più recenti, come Popieluszko. Perché è accaduto questo?
Occorre costatare che i due «mostri» del secolo non hanno beneficiato dello stesso trattamento nella memoria collettiva. In un’opera apparsa qualche anno fa, lo storico francese Alain Besançon evocava «l’oblio cristiano del comunismo» (Le malheur du siècle. Communisme. Nazisme. Shoah, Paris, 1998). «Ammesso che ci siano stati sotto il comunismo più martiri della fede che in nessun’altra epoca della storia della Chiesa, non si constata nessuna fretta né alcuno zelo nel compilarne il martirologio» egli scrive. Questa costatazione d’amnesia deve essere senza alcun dubbio modificata se pensiamo ad un certo numero di opere o di pubblicazioni dedicate ai martiri cristiani del XX secolo che danno ampio spazio alle vittime dell’oppressione comunista: penso in particolare all’opera di Andrea Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento (Milano, 2000). Molto provocatoria e non esente da presupposti ideologici, l’analisi di Besançon tocca tuttavia un punto sensibile: quello dello spazio, alquanto ristretto, occupato dagli studi sul comunismo nel panorama della storiografia religiosa recente. E il motivo per cui ho voluto scrivere questo libro, con l’intento di colmare una lacuna.
Che rapporto ha tutto ciò con la percezione dei regimi comunisti nel mondo libero?
Una data importante nella percezione che ha avuto l’occidente dei regimi comunisti è stata la pubblicazione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, nel 1974. Essa segna la fine dell’«illusione comunista» – per riprendere il titolo del libro di François Furet. La deriva totalitaria e criminale dei regimi comunisti non poteva più essere considerata come un semplice accidente di percorso, imputabile alla paranoia di un tiranno sanguinario come Stalin, ma si trovava inscritta nella logica stessa dell’ateismo marxista. La fine dell’illusione comunista favorirà, come in Polonia, il riavvicinamento della Chiesa con gli ambienti della dissidenza e permetterà la grande rivoluzione pacifica verso la democrazia che si ebbe alla fine degli anni 80.
Perché il nazismo, con i suoi orrori, resta sempre presente come un monito per la coscienza dei nostri giorni, mentre il totalitarismo comunista tende a sfumarsi, a perdere i propri connotati ideologici e criminali?
Ci sono senza dubbio molti fattori. Il comunismo continua ad apparire agli occhi di molti, malgrado tutti i suoi crimini, come un’ideologia del progresso destinata a promuovere il bene dell’umanità intera. Il gulag, i salari da fame e le deportazioni non sarebbero stati altro che tragici incidenti di percorso imputabili alla paranoia di Stalin. Mentre, al contrario, la Shoah è presentata come l’approdo estremo del progetto nazionalsocialista. Questa visione è riuscita ad imporsi nei media grazie a ciò che si può chiamare a buon diritto una forma di egemonia intellettuale della sinistra. Ciò detto, libri importanti apparsi in Francia alla fine degli anni 90 – quello di François Furet, Il passato di un’illusione. Saggio sull’idea comunista nel XX secolo, e soprattutto Il libro nero del comunismo sotto la direzione di Stéphane Courtois –, hanno avuto un certo impatto sull’opinione pubblica. Questi studi hanno messo in evidenza la supremazia dell’ideologia comunista e la natura criminale dei regimi comunisti che quell’ideologia ha fatto nascere.
In questa diversità di valutazione hanno avuto un ruolo anche le cosiddette «democrazie popolari»?
Non so se le democrazie popolari hanno contribuito a questa cecità nell’opinione pubblica occidentale. Il fatto che il comunismo, a differenza del nazismo, sia non solo sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, ma che ne sia uscito rafforzato sul piano politico, ha giocato il suo ruolo. Molti cristiani hanno ceduto alla tentazione del comunismo negli anni 50 e 60. La Chiesa stessa scelse di non condannare formalmente il comunismo durante il Concilio Vaticano II. Bisognava ad ogni costo salvaguardare la pace e promuovere la distensione tra i due blocchi. Nessuno immaginava che la fine del comunismo fosse così vicina.
Perché il comunismo viene sempre giudicato in base alle intenzioni e non in base ai suoi reali effetti? Per esempio, in un grande classico della letteratura come Se questo è un uomo, l’autore, Primo Levi, dice che i Lager erano una macchina appositamente studiata per lo sterminio, mentre i Gulag tendevano alla rieducazione, non all’annichilimento, e dunque, fatte le debite proporzioni, erano meno «gravi».
A dispetto delle loro somiglianze, c’è senza dubbio nel nazismo una sacralizzazione della violenza, un aspetto di forza bruta che non si trova nello stesso grado nel comunismo. Papa Pio XI condannò molto efficacemente l’ideologia razzista del nazismo come una forma di «neopaganesimo». La Shoah, in quanto politica di sterminio sistematico e pianificato del popolo ebraico in Europa, è senza precedenti: ha un carattere di unicità e di singolarità che i crimini, anch’essi spaventosi, del comunismo non hanno.
Il comunismo come ideologia viene interpretato da molti come l’ultima utopia universalistica dell’Occidente. La genesi occidentale può essere un fattore culturale che limita, più o meno inconsciamente, una riflessione e una memoria europea sul comunismo?
Non so se vi si possa vedere un fattore determinante. Dopo tutto, il fascismo e il nazismo sono ideologie occidentali che si pongono in reazione rispetto all’eredità universalista del cristianesimo e dei Lumi, e non come loro prolungamento come fa invece l’utopia comunista.
Qual è la situazione degli studi su questo tema?
Il mio libro non è che un primo tentativo di sintesi di una storia ancora in cantiere. Ognuna delle dimensioni del conflitto che esso affronta (politica, intellettuale, culturale, religiosa) meriterebbe di essere approfondita sulla base dei nuovi archivi, soprattutto per il periodo della guerra fredda. Per quanto riguarda il Vaticano, l’apertura annunciata come prossima ventura degli archivi del pontificato di Pio XII dovrebbe permettere di chiarire in profondità molti degli episodi riportati nel libro.