STORIA/ Quei martiri cristiani del comunismo dimenticati dall’Occidente
Ai martiri della fede cristiana sotto il comunismo sembra toccata la sorte di divenire «impopolari» quanto il comunismo stesso. Parla lo storico PHILIPPE CHENAUX

Nessuno o quasi, in occidente, parla più del comunismo. L’ideologia che ha dominato le menti di milioni di uomini è oggi un discorso impopolare, un bagaglio di idee perfino troppo «forti» per gli anni nei quali si raccolgono i cocci del pensiero debole. Eppure, vale la pena di interrogarsi su quanto e come la sua eredità spirituale condizioni ancora la memoria storica dell’occidente. Un capitolo speciale potrebbe essere considerato quello dei martiri della fede cristiana sotto il comunismo, ai quali sembra toccata la sorte di divenire «estranei» alla storia quanto il comunismo stesso. Di questi temi IlSussidiario.net ha parlato con Philippe Chenaux, storico della Chiesa, docente nella Pontificia Università Lateranense, autore de L’ultima eresia. La Chiesa cattolica e il comunismo in Europa da Lenin a Giovanni Paolo II (Carocci 2011).
Professor Chenaux, alla luce del suo ultimo libro qual è secondo lei il rapporto profondo tra il cristianesimo e il comunismo? In che cosa si differenzia la sua tesi da quella ben nota delle «verità diventate pazze»?
Il tema dei martiri della fede sotto il comunismo è molto sentito ad Est e poco sentito ad Ovest, dove è confinato ad una pubblicistica spesso apologetica. Sembra che si sia persa la memoria delle vicende di personaggi come Mindszenty, Beran o, più recenti, come Popieluszko. Perché è accaduto questo?
Che rapporto ha tutto ciò con la percezione dei regimi comunisti nel mondo libero?
Una data importante nella percezione che ha avuto l’occidente dei regimi comunisti è stata la pubblicazione dell’Arcipelago Gulag di Aleksandr Solženicyn, nel 1974. Essa segna la fine dell’«illusione comunista» – per riprendere il titolo del libro di François Furet. La deriva totalitaria e criminale dei regimi comunisti non poteva più essere considerata come un semplice accidente di percorso, imputabile alla paranoia di un tiranno sanguinario come Stalin, ma si trovava inscritta nella logica stessa dell’ateismo marxista. La fine dell’illusione comunista favorirà, come in Polonia, il riavvicinamento della Chiesa con gli ambienti della dissidenza e permetterà la grande rivoluzione pacifica verso la democrazia che si ebbe alla fine degli anni 80.
Perché il nazismo, con i suoi orrori, resta sempre presente come un monito per la coscienza dei nostri giorni, mentre il totalitarismo comunista tende a sfumarsi, a perdere i propri connotati ideologici e criminali?
In questa diversità di valutazione hanno avuto un ruolo anche le cosiddette «democrazie popolari»?
Perché il comunismo viene sempre giudicato in base alle intenzioni e non in base ai suoi reali effetti? Per esempio, in un grande classico della letteratura come Se questo è un uomo, l’autore, Primo Levi, dice che i Lager erano una macchina appositamente studiata per lo sterminio, mentre i Gulag tendevano alla rieducazione, non all’annichilimento, e dunque, fatte le debite proporzioni, erano meno «gravi».
A dispetto delle loro somiglianze, c’è senza dubbio nel nazismo una sacralizzazione della violenza, un aspetto di forza bruta che non si trova nello stesso grado nel comunismo. Papa Pio XI condannò molto efficacemente l’ideologia razzista del nazismo come una forma di «neopaganesimo». La Shoah, in quanto politica di sterminio sistematico e pianificato del popolo ebraico in Europa, è senza precedenti: ha un carattere di unicità e di singolarità che i crimini, anch’essi spaventosi, del comunismo non hanno.
Il comunismo come ideologia viene interpretato da molti come l’ultima utopia universalistica dell’Occidente. La genesi occidentale può essere un fattore culturale che limita, più o meno inconsciamente, una riflessione e una memoria europea sul comunismo?
Qual è la situazione degli studi su questo tema?
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