Gramsci e gli anni della sua prigionia nel carcere fascista, Gramsci e il Cremlino, Gramsci e Togliatti sono temi intriganti, per certi versi inestricabili, come lo sono un po’ tutti i temi impastati di grandi passioni e grandi tragedie politiche, ma proprio per questo destinati a tenere banco nell’opinione pubblica ogni volta che vengono appena sfiorati. Basta solo farvi cenno e subito si riaccende l’interesse per la vicenda di uno dei padri fondatori di quello che allora si chiamava il Partito comunista d’Italia. Tradito anche dai suoi compagni di partito? O forse lui e i suoi compagni, Togliatti in testa, sono stati semplicemente vittime delle macchinazioni fasciste? E il Cremlino? Quale fu il ruolo del Cremlino?
Francamente sono storie che non mi affascinano più di tanto. Trovo anzi piuttosto strano che, parlando di Gramsci, ci si distragga su queste storie, anziché guardare all’attualità sorprendente, paradossale, addirittura sinistra di uno dei suoi concetti più noti: l’egemonia. Per spiegarmi su questo punto, la prendo un po’ alla larga.
Per Gramsci, è noto, la rivoluzione si sarebbe dovuta realizzare soprattutto come “riforma intellettuale e morale”. L’egemonia politica e sociale andava dunque conquistata, non più con l’eliminazione dell’avversario politico, bensì portando quest’ultimo al “suicidio”. Come ci ha insegnato Augusto del Noce, a partire dall’attualismo gentiliano, Gramsci cerca di portarne a compimento i presupposti immanentistici e di realizzare così la rivoluzione di cui, a suo avviso, la cultura italiana aveva bisogno. La scuola diventa non a caso uno dei campi di battaglia privilegiati. Se Gentile, a tal proposito, resta titubante di fronte al “blocco” rappresentato dalla Chiesa cattolica, Gramsci non sembra avere esitazioni di sorta. Scrive: “Una delle maggiori debolezze delle filosofie immanentistiche in generale consiste nel non aver saputo creare una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i ‘semplici’ e gli ‘intellettuali’… Questa debolezza si manifesta nella questione scolastica, in quanto dalle filosofie immanentistiche non è stato neppur tentato di costruire una concezione che potesse sostituire la religione nell’educazione infantile, quindi il sofisma pseudo-storicistico per cui pedagogisti areligiosi (aconfessionali), e in realtà atei, concedono l’insegnamento della religione, perché la religione è l’infanzia dell’umanità che si rinnova in ogni infanzia non metaforica”.
Ho citato questa pagina gramsciana perché mi sembra abbastanza eloquente della radicalità della posizione del pensatore sardo. L’egemonia non la si conquista con strategie più o meno conciliatorie, bensì prendendo di petto l’avversario, svuotandone e sostituendone i contenuti, creando altresì “una unità ideologica tra il basso e l’alto, tra i ‘semplici’ e gli ‘intellettuali’”.
In società più o meno liberaldemocratiche, quali sono quelle nelle quali viviamo, questi pensieri di Gramsci suonano decisamente inattuali, per non dire indigesti. Il suo concetto di “egemonia” sembra difficilmente conciliabile con il pluralismo e le libertà. Eppure, se ci guardiamo intorno, e vengo così al punto che mi premeva sottolineare, è proprio con una nuova egemonia che oggi siamo chiamati a fare i conti. Si tratta di un’egemonia che dilaga, verrebbe da dire “gramscianamente”, svuotando tutto ciò che le si oppone, ma non in virtù di un lavoro intellettuale meticoloso, volto a saldare le classi “alte” e quelle “basse”, come auspicava Gramsci, in vista della conquista del potere da parte del partito comunista, bensì in virtù di una sorta di meccanismo, che non ha bisogno di riforme intellettuali e morali, ma solo di funzionari che ne gestiscano gli imperativi sistemici. È l’egemonia planetaria della tecno-finanza, di fronte alla quale il povero Gramsci si rivolterà certamente nella tomba. Ma anche noi semplici cittadini faremmo bene a preoccuparcene almeno un po’.