In Trentino ci sono assai poche vie e piazze dedicate ad Alcide De Gasperi. Sono quasi tutte intitolate – correttamente – ad Alcide Degasperi, tutto attaccato. Il cognome – peraltro abbastanza diffuso in Trentino – si scrive proprio così. E ciò valeva anche per lo statista di Pieve Tesino.
Suddito austroungarico, nel 1911 fu eletto al Reichsrat di Vienna e un errore della segreteria del Parlamento austriaco spezzò il suo cognome in de Gasperi. L’allora neo-deputato trentino non intervenne, con ciò attirandosi l’ironia di Cesare Battisti che, sulle colonne del Popolo, scrisse: «Caro von Gasperi, noi ridiamo della nobiltà che avete inaugurato a Vienna, scrivendo il vostro nome in due e diventando nei protocolli parlamentari da voi stesso firmati il nobile ‘de Gasperi’. A quando la contea o il baronato?».
La Repubblica ha lasciato il cognome spezzato ed è intervenuta solo innalzando il “De”, forse perché nella Costituzione sono aboliti i titoli nobiliari. Sta di fatto che, nel 1967, quando morì suo fratello Augusto (nella Prima guerra mondiale cadetto del 3º reggimento Kaiserjäger e decorato con la medaglia d’oro al valor militare), i necrologi uscirono con l’usuale e corretta grafia del cognome: Degasperi.
La storia – bisogna ammetterlo – è comunicazione politica. Ma la polemica recente intorno alla figura del grande statista trentino, che gestì la Repubblica nella sua fase genetica, avviandola – da ineguagliato protagonista istituzionale – sui binari della libertà e della democrazia, per una folla di ragioni, è quanto meno stucchevole. Soprattutto pensando a chi l’ha animata e anche a chi ne ha commemorato pubblicamente la figura.
A cominciare da Fini che, dimentico della sua cultura politica di provenienza, quella dell’estrema destra neofascista e antidemocratica, aveva fatto della contrapposizione frontale alla Repubblica e alla Democrazia cristiana uno dei suoi cavalli di battaglia. È stato pertanto inopportuno che intervenisse per commemorare Degasperi, al di là delle polemiche di cui è stato oggetto il Presidente della Camera, per le sue dimore monegasche e le sue ardite navigazioni ideologiche. Che dovrebbero indurre quanto meno alla prudenza.
Nel raccoglimento della Biblioteca Vaticana, Degasperi guardava al futuro, oltre la fine del conflitto, al di là del fascismo e della monarchia. Pensava anzitutto alla necessità di ricostruire il Paese sul piano etico e civile. Grazie al suo fermo moderatismo, mirò a una mediazione, tra le varie anime della nascente Dc che per lui era un partito laico, fondato sulla libertà intesa come strumento essenziale per sostenere la crescita della persona umana e il progresso sociale. Anime che, per un certo periodo, egli riuscì a tenere insieme grazie al suo proverbiale pragmatismo di uomo delle montagne, schietto e concreto. E che conferivano al partito la capacità di penetrare a fondo nella società italiana, soprattutto nella piccola e nella media borghesia.
Rispetto allo Stato liberale e al fascismo si pose in modo critico, senza tuttavia respingerne in blocco l’esperienza politica. La sua idea era quella di costruire uno Stato davvero moderno, fondato sul decentramento per ragioni di funzionalità burocratica e amministrativa, per dare vita a un rapporto equilibrato – non soverchiante – con il cittadino e per eliminare gli squilibri territoriali e sociali.
Degasperi era un uomo cattolico del Nord e, dunque, era perplesso di fronte alle concentrazioni monopolistiche. Il suo cuore batteva per la piccola e media impresa nel settore dell’agricoltura, delle arti e dei mestieri, dell’artigianato e per il sistema delle casse rurali. Ma alla grande industria e alla sua spinta propulsiva sul piano della ricerca e dell’innovazione tecnologica guardava con interesse, anche se in essa si potevano creare le condizioni per lo sviluppo del marxismo e l’affermazione della lotta di classe.
Di Degasperi – piegato alla bisogna sulla situazione interna dall’onorevole Casini che ha fatto del doroteismo una ragione di vita e che in questo periodo sogna l’alleanza con Bersani e Vendola – non s’è ricordato il capolavoro politico internazionale del 1947, alla Conferenza di Pace, quando ottenne il reingresso del Paese nelle democrazie occidentali. Andò a Parigi davvero «con il cappello in mano», ma anche con tanta dignità morale. Riuscì a ottenere la parola e incominciò: «sento che qui, tranne la vostra personale cortesia, tutto è contro di me». E in un discorso davvero alto nei contenuti e assai sobrio nell’eloquio rivendicò il sacrificio di Giacomo Matteotti e la lotta dell’antifascismo clandestino, ma anche la profonda fede democratica del Paese. Arrivò nella capitale transalpina da sconfitto – poiché rappresentava uno dei Paesi responsabili del conflitto mondiale – e uscì vincitore, raccogliendo la stima e l’ammirazione del Segretario di Stato americano Byrnes.
Degasperi pensava allo Stato e alle sue istituzioni rappresentative. Era uomo sobrio, austero e severo. Incarnava un modello di cattolicesimo liberale tutto particolare, quasi calvinista e comunque molto personale nel rapporto con Dio. E aveva senza dubbio assai poca attenzione alla dimensione sociale. Ma chi, dopo di lui, l’ha avuta ha pure combinato colossali disastri con i quali facciamo i conti ancora oggi: welfare state che non funziona, economia sociale di mercato, ingerenza dello Stato nella gestione dell’economia, rigonfiamento a dismisura del settore pubblico e statalismo. Basta fare i nomi – e ricordarli all’onorevole Casini – di Fanfani, La Malfa e Moro. Furono questi i suoi successori e la storia dello statista di Pieve Tesino non è continuata certo con loro. Come dire?, giù le mani da Degasperi, unico vero uomo di Stato nella storia della Repubblica.
Dopo di lui, il Paese ha imboccato un’altra strada. E soprattutto non ha più avuto uomini politici con un senso delle istituzioni, una dirittura morale, uno slancio etico e civile, una sobrietà e una concretezza politica, minimamente paragonabili alle sue.