LETTURE/ Quel “peso” del cuore che non ci lascia mai tranquilli

- Valerio Capasa

Scoprire, nel peso della vita, l'insopprimibile ansia di conoscere l'assoluto. Il viaggio di VALERIO CAPASA nei sentimenti di Carl Michelstaedter e nel suo drammatico scacco

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«Ma ora qui che aspetto, e la mia vita
perché non vive, perché non avviene?»

Carlo Michelstaedter, il genio goriziano entrato un centinaio di anni fa nella storia letteraria con una folgorante tesi di laurea intitolata La persuasione e la rettorica, non aveva dubbi: la vita è qualcosa che, se «non avviene», «non vive». Ossia manca di sé: paradossalmente, «la sua vita è questa mancanza della sua vita».

«Guardo e chiedo la vita». E invece ci ritroviamo appesi a qualcosa che non possediamo e per cui «non possediamo mai la nostra vita»: «So che voglio e non ho cosa io voglia». È un’incertezza che si documenta esistenzialmente come «peso»: «lo vogliamo soddisfare: lo liberiamo dalla sua dipendenza; lo lasciamo andare» dovunque, «ma in nessun punto raggiunto fermarsi lo accontenta». Anzi, «ogni volta fatto presente, ogni punto gli sarà fatto vuoto d’ogni attrattiva», tanto che sempre, nell’uomo cosciente, si insinua quel «sordo continuo misurato dolore che stilla sotto a tutte le cose».

C’è qualcuno così coraggioso da guardare in faccia tale peso che lo addolora? «Nei terrori della notte e della solitudine ognuno lo prova, ma nessuno lo confessa, che alla luce del giorno si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sé». Lo sperimentiamo tutti «quando è fatto manifesto nei fatti singoli»: solo che lo riduciamo a «una cosa determinata», alla «definita e limitata» circostanza che contestiamo, mentre esso rivela «il cruccio infinito che rode il cuore», «è il mistero che apre la porta della tranquilla stanza chiara».

Certo, conosciamo vari stratagemmi per chiudere la porta e soffocare «l’onestà di sentirsi sempre insufficiente»: «gli uomini, che nella solitudine del loro animo vuoto si sentono mancare», poi «si stordiscono l’un l’altro». E meglio di tutti lo sanno fare quelli che prendono l’«inconfessato tormento» e ci parlano sopra: «di parole nutrono la loro noia, di parole si fanno un empiastro al dolore». Ci si sfoga, ci si confida, «ci si racconsola, – ci si distrae; – e poi si ricomincia – sempre avanti»: «così fiorisce la rettorica accanto alla vita».

Esistono però anche parole vere, quelle che costano sangue: «quanto uno vuol camminar sulle sue gambe, tanto deve sanguinar le sue parole». Per cercare di afferrare la vita, cioè la mancanza della vita: «Mancar di tutto sì e tutto desiderare – questa è la vita», scrive Michelstaedter nel Dialogo della salute. Perché «la vita è il bisogno», è «bisognosa di tutto». E ben venga questo bisogno, perché significa che la realtà continuiamo a sentirla promettente:

«Ai bisogni corrispondono le promesse della realtà come valori. (Chi non ha più bisogni – non ha più valori – non ha più realtà – non ha coscienza – non parla né di vita né di morte – ma muore senza accorgersi). –

Fino a che uno vive: vuole la felicità, postula un valore per il quale gli valga vivere. Egli chiede la subordinazione dei valori della vita a un valore più grande».

Un bisogno tuttavia inesorabilmente inappagato, sentenzieremmo, e dunque un’«infausta brama», che ogni occasione riaccenderà «perché tu speri disperando e attenda ciò che non può venire»: anche «la felicità è una vana parola»«Il cor vive, e vuole, e  chiede e aspetta», ma quello che ci manca ci mancherà sempre, ci farà sempre male. Meglio non dipendere da questo «desiderio irriducibile e vano», meglio cercare il modo per evitare problemi, e sentirsi «in una botte di ferro», padroni di se stessi. Anche perché «la vita ha pure i suoi lati belli. Conviene saperla prendere»«fruire di questa maravigliosa comodità della vita, e cogliere fra la varietà aumentata dei piaceri, di questo e di quello con saggia misura».

Prima ancora di discutere la sua tesi, Michelstaedter si convinse di essere «solo nel deserto» e di non poter conoscere un «valore assoluto» in grado di corrispondere alla sua «brama insaziata»«tu mi sei cara mille volte, o morte, / che il sonno verserai senza risveglio / su quest’occhio che sa di non vedere, / sì che l’oscurità per me sia spenta». E rivendicando «il coraggio di sentirsi ancora solo, di guardar ancora in faccia il proprio dolore, di sopportarne tutto il peso», decise di «venir a ferri corti colla propria vita» e di andar via dall’«oscurit໫Lasciami andare, Paula, nella notte / a crearmi la luce da me stesso».

«Crear tutto da sé» sarebbe l’unica alternativa per chi vive la «coscienza» di non essere altro che, etimologicamente, una «continua deficienza». Con quell’insopportabile deficit ci tocca comunque fare i conti: e se è retorico evitarlo, allora non resta che spegnerlo tragicamente, preferendo alla vita come «bisogno insoddisfatto» la morte che regalerebbe «l’incoscienza», o almeno la «coscienza senza bisogno» (che rimane pur sempre una contraddizione in termini: perché «felicità senza coscienza non esiste»). Ma «la morte di fronte alla domanda non risponde»: istituisce semplicemente «la negazione del bisogno». Che è l’inesorabile conseguenza della «negazione del valore» per cui vivere: «Ahi, quanto pur m’illuse la mortal / mia vista che di fuor ci finge certo / quanto ci manca sol perché ci manca». Se pensassimo di poter trovare quello che ci manca, insomma, saremmo soltanto degli illusi.

Eppure resta da prendere coscienza proprio di che cosa sia questa mancanza, da che cosa dipenda. Chi la guarda in faccia, senza persuadersi di doversene liberare uscendo «fuori di quei bisogni» e di«farsi una via per riuscire alla vita», può anche avere il «coraggio» di sospettare che quella «continua deficienza» non la sentiremmo nemmeno se non fosse lo spazio di un continuo rapporto (perché, se «felicità senza coscienza non esiste», è anche vero che non esiste coscienza senza felicità).  

Del resto,«quant’è peso pende e quanto pende dipende», e non è detto che tale dipendenza – «poiché in me qualcosa chiede ancora la vita» – non si riveli la grande occasione di poter finalmente chiedere a qualcuno che ce l’ha quella vita che noi non abbiamo: «la vita che mi dia pace sicura / nella pienezza dell’essere».

Forse «se non fossimo inaciditi dal dogma dello scetticismo» saremmo più facilmente persuasi che chi soffre il bisogno «conosce» già in qualche modo lì dentro la «vera vita», perché se essa da qualche parte non ci fosse nemmeno gli urgerebbe tanto terribilmente: «L’assoluto, non l’ho mai conosciuto, ma lo conosco così come chi soffre d’insonnia conosce il sonno, come chi guarda l’oscurità conosce la luce».





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