Tra i drammatici eventi determinati dall’8 settembre 1943 (resa dell’Italia agli Alleati anglo-americani), paragonabile, come numero di vittime, alla tragedia di Cefalonia, vi fu l’affondamento della corazzata Roma. Alle ore 16,20 del 9 settembre 1943, la corazzata, nave ammiraglia della flotta italiana, colpita da due bombe aeree tedesche, si spezzò e affondò in seguito all’esplosione della sua santabarbara. Morirono il comandante in capo della nostra flotta, ammiraglio Carlo Bergamini, altri 87 ufficiali e 1264 uomini dell’equipaggio della nave.
L’ammiraglio Carlo Bergamini era uscito dalla sua casa, a Roma, alle 6 del mattino di mercoledì 8 settembre 1943, e aveva preso posto sulla vettura militare che doveva condurlo a La Spezia. Il giorno prima, il 7, aveva lasciato la sua nave, la corazzata Roma, per partecipare a un vertice militare nella capitale. Ma nessuno gli aveva fatto capire che era imminente la resa agli Alleati. L’unico ordine impartitogli dal ministro della Marina, ammiraglio Raffaele De Courten, era di tenersi pronto a salpare perché i servizi segreti avevano informato di un possibile sbarco nemico a Salerno. Se la notizia fosse stata confermata, la flotta sarebbe dovuta intervenire.
Bergamini arriva a La Spezia poco dopo mezzogiorno, raggiunge la Roma, ormeggiata a Porta Marola, all’arsenale, e qui riceve una telefonata di De Courten: “Preparati a partire. Sono state avvistate 450 navi nemiche dirette a Salerno!”. L’inganno continua. Per quanto possa sembrare incredibile, neppure il ministro De Courten sa che abbiamo firmato l’armistizio. Lo sanno soltanto il Re, Badoglio, Ambrosio e, ovviamente, il plenipotenziario che ha firmato la resa, cioè Castellano. Mentre i motori sono ormai sotto pressione, viene captata anche a La Spezia la notizia di Radio Londra secondo cui l’Italia ha capitolato.
Sono le ore 18,30. De Courten scarica su un suo collaboratore, l’ammiraglio Sansonetti, la “rogna” di dare il contrordine a Bergamini: “Fare rotta su Malta per consegnarsi agli inglesi, e non più su Salerno per attaccare gli americani”. Bergamini: “Voglio parlare con De Courten”.
Poco dopo, il ministro è al telefono. Solito fervorino, Sua Maestà, i patti ormai firmati, eccetera eccetera, poi, più duro: “Se non te la senti di ubbidire, puoi presentare le dimissioni”. È ardua la prospettiva di consegnare al nemico, a quello che fino a un minuto prima era il nemico, la terza più potente flotta del mondo, dopo quella americana e quella giapponese. Alla fine, Bergamini conclude: “Va bene, io ubbidisco, ma non porterò le mie navi a Malta. Ci dirigeremo a La Maddalena e là aspetteremo gli eventi”.
Non va dimenticato che Malta era stata la tomba dei primi eroi della Decima Flottiglia Mas e che da Malta partivano gli aerei alleati per distruggere le nostre città. Sì alla resa, dunque, se questi erano gli ordini, ma no all’umiliazione di consegnare le perle della nostra flotta in casa di una potenza contro la quale ci eravamo battuti per più di tre anni.
Ore 3 della notte sul 9 settembre: la flotta italiana esce dal porto della Spezia. In testa, cinque torpediniere, seguono tre corazzate (la Roma, la Vittorio Veneto e l’Italia, ex Littorio), tre incrociatori e otto cacciatorpediniere, cui si aggiungono, poche ore dopo, gli incrociatori Abruzzi, Garibaldi e Aosta, sopraggiunti da Genova al comando dell’ammiraglio Luigi Biancheri. Velocità 22 nodi, mare piatto, destinazione La Maddalena.
Ore 13: sulla nave ammiraglia arriva la notizia che La Maddalena è caduta in mano tedesca. Bergamini, sentita Roma, ordina di proseguire verso Bona (Algeria), dove si consegnerà agli inglesi. Non può sapere che, direttamente da Berlino, l’OKW (Oberkommando der Wehrmacht) ha ordinato alla Terza Flotta Aerea di base in Francia di “dare una lezione” agli italiani.
Alle ore 14, dodici bimotori Dornier 217 K, al comando del ventinovenne maggiore Jope, decollano dall’aeroporto militare di Marsiglia-Istres. Obiettivo: la flotta italiana. Ogni velivolo è armato con una bomba FX-1400 radiocomandata. Si tratta di un’arma segreta, chiamata in gergo, dagli aviatori, Fritz, pesante 1400 chili, lunga 3,30 metri, dotata di un motore a razzo. La bomba può essere sganciata da un’altezza di 5mila metri, dove i proiettili della contraerea non arrivano. Nessun rischio, dunque, per i piloti germanici.
La flotta è avvistata alle 15,30. Partono le prime bombe. Una immobilizza l’elica della corazzata Italia, un’altra colpisce in pieno la Roma, una terza causa un enorme squarcio ancora alla Italia, ma senza fare vittime. È la quarta, la bomba della strage. Oltrepassa la corazza della Roma, penetra all’interno e va ad esplodere nel deposito munizioni di prua. Il ponte di comando viene polverizzato dalla terrificante esplosione, l’ammiraglio Bergamini e il suo stato maggiore fatti a pezzi. Alle 16,20 la Roma si rovescia sul fianco destro, si spezza in due e affonda. Le altre navi, dopo essere riuscite a mettere in salvo 596 naufraghi, fanno rotta su Bona, ma l’ammiraglio Romeo Oliva, che ha preso il comando, riceve, via radio, l’ordine di dirigere su Malta. L’umiliazione dei marinai d’Italia deve essere totale.