C’è un profilo nella storia degli ottocento martiri di Otranto, che rende quegli eventi umanamente contemporanei e perciò comprensibili, giustificando l’eccezionalità della vicenda. Esso si ricava dalla dinamica esistenziale dei protagonisti, passata fra due stati d’animo incomparabili: dalla paura alla letizia, dal coraggio alla mansuetudine, dall’eroismo alla santità.
I fatti sono noti. Il 28 luglio 1480 sulla costa otrantina sbarcò una possente flotta turca (140 navi con 15mila soldati), che cinse d’assedio la città. La guarnigione aragonese del Re di Napoli non fu in grado di fronteggiare l’ondata ottomana e abbandonò gli otrantini a se stessi. Piuttosto che arrendersi, questi resistettero eroicamente per circa due settimane, fino a quando le milizie musulmane riuscirono a sfondare le mura, massacrando i civili e saccheggiando la città. Molti si rifugiarono nella Cattedrale. Narrano le cronache che “era cosa straziante vedere le madri stringere le figlie al seno, li teneri figli abbracciati alli vecchi padri, li amici alli amici, e tutti fortemente rompere in pianti e col cuore pregare Dio con quel fervore, che solo sa destare l’ora estrema». Infine i turchi irruppero nella Cattedrale, uccidendo l’arcivescovo, i sacerdoti e numerosi fedeli.
Nella tragicità degli eventi, tuttavia, la vicenda non sembrerebbe discostarsi dagli altri eccidi che hanno contrassegnato tante invasioni costiere con pari motivazioni (apparentemente) religiose. E anzi, proprio l’impronta musulmana dell’iniziativa potrebbe indurre ad attualizzare quegli eventi, sino a leggerli alla luce delle categorie politico-culturali elaborate all’indomani dell’attentato alle Torri gemelle; cosicché gli eroi della resistenza otrantina potrebbero essere celebrati come gli antesignani di quello scontro fra civiltà, invocato dopo l’11/9 con il pretesto della lotta al fondamentalismo religioso.
Tra i due eventi, infatti, potrebbero essere rinvenute talune analogie. Anche l’invasione turca, anzitutto, fu mossa (apparentemente) da un pari fondamentalismo islamico; in realtà la legge coranica vieta quanto le milizie musulmane compirono nell’occasione, nel senso che è severamente vietato obbligare con la forza i cristiani alla conversione all’islam e che l’alternativa tra la conversione e la morte è riservata ai soli pagani. Anche l’invasione turca, per dirla tutta, fu contrassegnata da ragioni geopolitiche rimaste ancora equivoche; basti pensare che, come ha rilevato Franco Cardini, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l’Europa e a sottomettere i popoli cristiani all’islam. La sua azione, piuttosto, sarebbe valsa a ottenere i favori dei regni di Venezia e di Firenze, ridimensionando le pretese egemoniche del Re di Napoli sulla penisola italica e sull’Adriatico. In definitiva, anche nel caso dell’invasione turca il fondamentalismo islamico potrebbe avere agito solamente da detonatore di interessi politico-militari ben più dirimenti; ancora una volta, insomma, la minaccia musulmana potrebbe essersi dimostrata strumentale a una redistribuzione altrimenti improbabile delle ambizioni economiche delle potenze coinvolte.
Eppure, nonostante le analogie (apparenti o reali), la vicenda dei martiri non è riducibile allo schema dello scontro fra civiltà. Parafrasando Oriana Fallaci, verrebbe da dire che essi non agirono per “rabbia e orgoglio”. Certamente furono decapitati a causa di un fondamentalismo contrastante con la legge coranica; al contempo, tuttavia, essi non accettarono il martirio in nome dei valori irrinunciabili della cristianità occidentale. Più semplicemente, si trovarono ad affrontare il martirio per non tradire ciò che rendeva lieto il loro cuore.
Narrano le cronache che gli 800 uomini sopravvissuti all’eccidio turco, ricevuta la terribile alternativa fra la conversione all’islam e la decapitazione, sperimentarono subito la differenza fra la paura e la letizia: l’una svanì e si risolse nell’altra. Uno dei più anziani “andava animando tutti alla sopportazione della morte e passione per amore del signor nostro Gesù Cristo”. Alcuni testimoni videro “quei cittadini sereni, con umiltà e mansuetudine, cha abbassavano la testa, affinché per amore di Cristo fossero trucidati”. Un altro racconta che “li vide tutti volontariamente e con animo contento esporre alle spade le loro cervici”. Vi fu uno dei martiri, addirittura, che “non volle riscattarsi, ma volle piuttosto morire con gli altri suoi compagni, sebbene tuttavia avesse potuto riscattarsi con una certa somma di ducati, che egli stesso aveva nascosto in precedenza per la paura dei Turchi”.
A ben vedere, il martirio cela sempre una dinamica paradossale. Esso avviene all’esito di una sconfitta plateale provocata dal potere dominante; coincide con una disfatta assoluta e ingiusta della vittima; si consuma con cattiveria e senza speranza di rivalsa umana e politica. Eppure non è mai motivo di rancore; anzi, spesso provoca un senso di stupita gratitudine in chi vi assiste.
È tutta qui la differenza esistenziale fra l’eroismo e la santità. A certe condizioni si può anche maturare il coraggio di sacrificare la propria vita per un ideale ritenuto giusto; a certe condizioni lo sconfitto può anche esibire un’indomita fierezza dinanzi al patibolo; in nessun caso, tuttavia, è possibile rendere il cuore dell’uomo artificialmente lieto. Come ripeteva Agostino, non si può imporre a sé o agli altri lo stupore. Ecco perché il martirio è la forma suprema della testimonianza cristiana. Esso rende evidente che non c’è bisogno di sforzarsi per arrivare alla felicità, giacché la felicità stessa si è abbassata, si è fatta incontro, si è umiliata. Specialmente nel martirio il soggetto della testimonianza è lo stesso Gesù Cristo.
E la Chiesa si diffonde così, altrimenti è proselitismo per gente impegnata. Come ha detto Papa Francesco: “i Santi sono quelli che portano la Chiesa avanti!”.