I più ritengono che il capolavoro di Susanna Tamaro sia Va’ dove ti porta il cuore (anche se taluni critici ne hanno stigmatizzato un buonismo eccessivo, a dir loro sconfinante nella retorica sentimentale), mentre – a mio modesto parere – il miglior libro scritto da questa autrice ritengo sia Ogni angelo è tremendo (Bompiani, 2013): una sorta di testo autobiografico che narra la storia di una sensibilissima ed emotivamente fragilissima bambina, nata a Trieste negli anni Cinquanta e destinata in seguito a divenire una vera e propria artista della parola.
Dicevo: una specie di autobiografia, però, in quanto l’ultimo scritto della Tamaro non è mai all’insegna d’una scrittura ombelicale: rivolta cioè all’esclusiva contemplazione/decifrazione del proprio narcisismo. Certo, in questo Bildungsroman, in questo romanzo di formazione si parla di Susanna, ma potrebbe essere anche un’altra la protagonista del testo, perché credo esso miri a farci riflettere sulla condizione umana in generale, sulla bellezza del mondo ad onta di ogni suo tragico aspetto, e infine sulla felicità che è possibile trovare/provare anche nelle situazioni più drammatiche. Ma solo se ci rendiamo conto che “Essere qui è meraviglioso” (Hiersein ist herrlich), per dirla con Rilke, un cui verso delle Elegie duinesi è non a caso utilizzato come inquietante titolo di questo romanzo/meta-romanzo; all’inizio del quale la piccola Tamaro è ben lontana da una simile consapevolezza, nutrendo appena una ricettività emozionale tutta tesa a “percepire anche il più sottile scricchiolio del mondo”.
Sì, è una bambina davvero singolare Susanna, coi suoi “impossibili” interrogativi di fisica e metafisica su chi abbia fatto le stelle e da dove venga la luce; quesiti a cui il fratello ovviamente non sa come rispondere. Una bambina ansiosa, ipersensibile e problematica, tendente a piangere spesso: “perché le cose finivano, perché, dietro la luce, c’era sempre in agguato il buio”. Una sempre irrequieta indagatrice la cui testa “esplodeva di domande”, mentre a quel tempo ai bimbi veniva richiesto solo di “essere obbedienti”. Meno che mai infatti era opportuno smarrirsi in riflessioni filosofiche, come ad esempio quella intorno al “vuoto”, sempre avvertito dalla nostra scolaretta quale perdita, sottrazione, annichilimento. Sullo sfondo della narrazione, inoltre, affiora l’Italia del secondo dopoguerra, che sta avviandosi speranzosa verso il boom economico ed è ritratta dall’autrice con rapide, intense, fresche pennellate. E come appaiono stridenti le diversità educative fra ieri e oggi: tra l’autoritarismo genitoriale/scolastico degli anni Sessanta – le cui contraddizioni verranno fatte deflagrare dalla rivolta studentesca del ’68 – e il lassismo permissivo dei giorni nostri.
Nel frattempo la nostra Susanna cresce; così un po’ alla volta il suo scoramento saturnino si trasforma in sentimento compassionevole, e la sensibilità morbosa in empatia. Ma dovranno trascorrere anni, decenni prima di giungere alla consapevolezza che “la quotidianità nasconde tesori”. Prima vi sarà la passione giovanile per le scienze naturali − mineralogia, botanica e zoologia −; le innumerevoli letture, cui si alternano viaggi alla scoperta di ambienti o animali esotici. E prima ancora la faticosa comprensione che gli adulti (in primis i propri genitori) non sono eroi perfetti, ma uomini e donne vulnerabili e fallibili. Infine l’accostamento a una religiosità profonda, quasi mistica, segnata dalla meditazione su libri ascetici che invitano, seguendo il monito del nada di San Giovanni della Croce, a “Non attaccarsi a nulla./ Non desiderare nulla./ Non attendersi nulla./ Sapere di essere nulla”. Per giungere a capire che tentar di proteggersi richiudendosi all’interno della propria monade egocentrica serve a ben poco, in quanto è semmai “la misteriosa e gratuita dinamica dell’incontro” a salvarci.
Da ultimo − dopo un periodo trascorso a Roma, dove la giovane si diplomerà in regia − l’incontro con la poesia (Villon, Baudelaire, Rimbaud) e la prosa, le prime prove di scrittura e la presa d’atto di una vocazione all’utilizzo della parola quale espressività artistica privilegiata. È il ritorno a Trieste, città che fra gli altri grandi ospitò Rilke, Joyce e Svevo (zio dell’autrice), presso cui la protagonista impara a sostare con più leggerezza, guardando alle cose attraverso una salutare ironia, mai disgiunta dall’autenticità anche piuttosto scabra del dire. Così il testo si chiude con delle inedite considerazioni di Susanna Tamaro sulla scrittura, peraltro assai condivisibili: “Tutti i miei libri attraversano l’oscurità, non per il compiacimento di farlo, ma per scoprire il punto in cui, a un tratto, il buio misteriosamente si può trasformare in luce”.