La parola è un segno e come tutti i segni, mentre svela, vela. È in questo scacco che nasce – cavalcata nel dopo Cartesio, diventata sovrana e arrivata fino a me qui e ora, fino a corrodermi le viscere qui e ora – la tentazione di non crederle.
Ma non credere alle parole è non credere alle cose. È la tentazione di Mallarmé. Mallarmé odia la parola quotidiana, la parola d’uso, perché l’uso la involgarisce, la svilisce. Ne erode la referenza, la rende un simulacro, un cristallo sgrezzato che non riflette né lascia vedere, che non è né specchio riflesso del vero, né teca che lo conservi. È questo involgarimento, infatti, questa sciatteria esperienzale, che ci porta, con le parole di T.S. Eliot, a parlare non di sentimenti ed emozioni ma delle loro astrazioni sociali.
È in queste pieghe, nello spazio di non corrispondenza tra le parole e le cose, che germina lo scetticismo sul dire, quell’esperienza per cui – al culmine di una discussione appassionata, o spesso persino prima d’iniziarla – ci arrestiamo atterriti: «Tanto non potrai mai capire». Questa esperienza è talmente diffusa che la sua presa d’atto non può che definirsi realista. Lo scetticismo che ne consegue, tuttavia, l’arrestarsi perché l’altro, per quanto io mi spieghi, «non potrà mai capire», non è una presa d’atto, è un’azione. Perché abbia strada, perché il suo potere corrosivo trovi spazio, occorre la nostra connivenza, occorre negare dignità alla pratica quotidiana della parola. Occorre, insomma, staccarsi dall’esperienza.
Che cosa ci dice infatti l’esperienza? Pensate al nome della persona che più amate. È solo un nome. Lettere. Suoni. Solo un nome. Ma che cos’è un nome! Che mistero il pronunciarlo, sentirlo fremere tra le labbra! Il tuo nome! Per chiamarti, rimproverarti, passarti la penna, chiederti un indirizzo, per piangere il tuo sprezzo del bene che ti porto. Che spreco, il tuo nome così usato, che spreco, che tu tra le mie labbra sia così tu, eppure così lontana da te.
Fino a un momento, dato e subito perduto, in cui tu sei. In cui tu, per un istante, sei tu. In cui la cosa è finalmente, per un istante, la cosa. Ce lo dice Eliot in The Dry Salvages:
Sembra, invecchiando,
che il passato assuma un’altra trama, che cessi d’essere una mera sequenza
o sviluppo: una parziale fallacia, questa,
incoraggiata da un’idea superficiale di evoluzione,
che diventa, nella mente popolare, un modo per sbarazzarsi del passato.
Quell’istante di felicità – non il senso di benessere,
l’appagamento, il culmine, la sicurezza o l’affezione,
né una cena proprio bella, ma l’illuminazione improvvisa –
di cui si ha l’esperienza e perso il senso,
quel senso che accostato rende l’esperienza
in una nuova forma, al di là di ogni senso
che potessimo dare alla felicità
(The Dry Salvages, ii 87-98)
È un miracolo, è dato. Ma è nel riconoscere questo dato, nell’accettare come dati quei rarissimi momenti in cui la parola riesce ad afferrare, che si evidenzia la ragione della fiducia in essa. La ragione per cui la parola incontrata si offre come luogo di preghiera.
Se imboccate questa via,
per ogni strada, partendo da ogni dove,
sarà sempre uguale: bisognerà gettare
senso e nozioni. Non siete qui a verificare,
a istruirvi, informare la vostra curiosità
o stilare rapporti. Voi siete qui ad inginocchiarvi
dove la preghiera ha funzionato. E la preghiera è più
che un ordine di parole, o l’occupazione intenta
della mente che prega, o del suono della voce che prega.
E quello per cui i morti non avevano parole, essendo vivi,
adesso sanno dirtelo, da morti: la comunicazione
dei morti ha lingue di fuoco oltre la lingua dei vivi.
Qui, l’intersezione dell’istante senza tempo
è l’Inghilterra e nessun dove. Mai e sempre.
(Little Gidding, i 41-55)
L’intersezione del senza tempo nel tempo, qui e ora, Inghilterra e nessun dove. L’accettazione della sfida delle parole è l’accettazione della sfida dell’esistenza. È la lotta della libertà: e in quello iato, in quell’ultima non corrispondenza tra le parole e le cose, c’è l’invito costante dell’essere alla nostra libertà, all’adesione. Perché le parole incontrate, pregate, si rinnovino sempre e sempre ci disvelino la novità delle cose. Perché, pregate, ci aiutino non a soffocare e distruggere le cose che nominano, ma a conoscerle e amarle.
Così sto qui, a mezza via, avendo passato vent’anni –
vent’anni così sprecati, gli anni dell’entre deux guerres –
tentando d’imparare a usare le parole, e ogni intentata
è una nuova partenza, e un tipo diverso di errore
perché non si impara mai a trovare le parole giuste
se non per ciò che non si ha più da dire. Ed ogni azzardo
è un nuovo inizio, una scorreria balbuziente
nel casino dei sentimenti imprecisi,
di squadroni indisciplinati di emozioni. E ciò che va conquistato
con forza e sottomissione, è già stato scoperto
una volta o due, o infinite volte, da uomini che non possiamo sperare
di emulare – ma non c’è competizione –
c’è solo la lotta a recuperare ciò che è stato perduto
e ritrovato e perduto ancora e ancora: e adesso, in condizioni
che non sembrano propizie. Ma forse non c’è né guadagno né perdita.
Per noi solo il provare. Il resto non è affar nostro.
(East Coker, v 174-191)
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L’articolo proposto è un’anticipazione del volume “Chi scrive ha fede?”, a cura di Alessandro Ramberti, Fara editore, e raccoglie alcuni degli interventi svolti all’omonimo incontro svoltosi a Rapallo dall’8 al 10 febbraio 2013 tra quali quelli di Daniele Gigli, Francesco Napoli, Elisabetta Sala, Rosa Elisa Giangoia.