Cercava del concime e trovò una biblioteca. E quando nella grotta rintoccò la prima giara al colpo del suo piccone, Muhammad ‘Ali al-Samman temette d’aver risvegliato il sonno inquieto di qualche antico spirito. Gli prese paura. Poi curiosità. Poi brama di qualche tesoro nascosto. Ma non erano né spiriti, né concimi, né denari. Erano libri sepolti da un millennio e mezzo, scritti nella lingua egizia di epoca imperiale, il copto, ritrovati per caso da un contadino nelle grotte naturali vicino al villaggio di Nag Hammadi (Egitto). È il dicembre del 1945: mentre il mondo prova a rinascere, rinascono gli «gnostici». Tacevano sottoterra dal IV secolo.
Iscritto in una logica spiccatamente dualistica, lo gnostico crede in un Dio buono, supremo e lontanissimo, e in un Dio degradato, malvagio e creatore. Nel mondo terreno, frutto avvelenato di questo secondo Dio, egli si sente alienato e schiavo. Ma nel momento stesso in cui «conosce» la propria condizione e riconosce la sua vera origine divina (almeno in quella particola che gli è data in sorte), lo gnostico si libera e si redime.
Nel corpo e negli atti vive su questo mondo; sceglie per la sua etica, a seconda dei casi, il libertinismo o l’ascesi; partecipa, se vuole, a una chiesa o a un rito; frequenta, se trova, maestri di filosofia: ma la sua sofia, la sua vera teosofia egli la porta nel cuore. Nel suo esclusivo esoterismo, si crede membro di un’élite predestinata, che fa «esperienza» di dio e che diventa dio: egli è un eletto. Per questo la gnosi – la «conoscenza» – rinasce perpetuamente, e nei contesti più diversi. C’è chi ne ha ritrovato le tracce nel neoplatonismo, nel dualismo manicheo, nei miti dei bogomili bizantini, negli alchimisti del Cinquecento, nell’idealismo classico tedesco, nella filosofia esistenzialista, persino nel leninismo (partito unico di eletti, e per ciò stesso già salvi, in quanto depositari della conoscenza).
Certamente la centralità del sé, la scissione tra il proprio sé e l’io empirico, ha fatto dello gnosticismo un campo privilegiato di indagine per la psicanalisi di Jung, che vi ha visto la scoperta antichissima della psicologia del profondo: è a dir poco sintomatico che il primo dei tredici manoscritti scoperti a Nag Hammadi sia stato acquistato dalla Fondazione Jung di Zurigo, e chiamato per questo, anche nella letteratura scientifica, «codice Jung». Per orientarsi in questa affascinante biblioteca il lettore italiano dispone ora di un libro commendevole, scritto da una studiosa americana e scrupolosamente tradotto (Nicola Denzey Lewis, I manoscritti di Nag Hammadi. Una biblioteca gnostica del IV secolo, a cura di M. Grosso, Carocci), scaturito da un’appassionata attività di ricerca e di insegnamento, informativo e non dogmatico, che si muove con cautela in una materia spesso incandescente.
In effetti fino a quando l’ignaro contadino egiziano non li riportò alla luce, degli gnostici si sapeva soltanto quello che ne dicevano gli avversari: fonti cristiane e pagane che avevano orrore di un movimento religioso proteiforme, insidioso, mimetico, che poteva annidarsi nel cuore di un sistema teologico e filosofico allotrio, sfruttarne le impalcature istituzionali, svuotarne le scritture e sostituirvi il mito. Ora finalmente tornavano a parlare per bocca propria. Basti un esempio. Nel 245, diciassette secoli esatti prima della scoperta di Muhammad, il più grande filosofo greco dell’epoca imperiale, Plotino, ha da poco aperto la propria scuola. A sentirlo parlare di Platone si raccoglie un pubblico variegato: Porfirio, il suo biografo, ricorda anche «molti cristiani» e «altri» che definisce «settari» (letteralmente «eretici»). Per decenni Plotino li accolse tra i suoi discepoli, benché criticassero pesantemente Platone, l’autorità somma della scuola, e nonostante le profonde diversità di vedute nel concepire la realtà divina. Poi un giorno passò alla resa dei conti: scrisse di suo pugno un intero trattato «contro gli Gnostici» (Enneadi II 9) e chiese ad altri suoi adepti, tra cui Porfirio stesso, di demolire altri scritti di quel gruppo.
Tra i bersagli colpiti Porfirio menziona esplicitamente certe «apocalissi» gnostiche, tra cui quelle di «Zostriano» e di «Allogene», confutate con vigore dai neoplatonici e poi perdute per sempre. Ma la storia talvolta riemerge. E questa volta è riemersa a Nag Hammadi. Quale sorpresa nel trovare tra i manoscritti di Muhammad proprio Zostriano (codice VIII) e proprio Allogene (codice XI). Gli intrecci tra platonismo, gnosticismo e cristianesimo sono tornati così a interrogare gli storici. Molto rimane ancora da chiarire (che ci fa nel codice VI un estratto della Repubblica di Platone?), e a occuparsene dovrebbe anche essere il grecista: perché ragioni filologiche difficilmente controvertibili indicano che quei testi furono composti in greco, e solo più tardi tradotti in copto, come l’apocalisse di Zostriano che disgustava Plotino. Potrà forse sembrare provocatorio: ma la biblioteca di Nag Hammadi appartiene alla grecità.
Da ultimo una domanda: che fine fece Muhammad? Pare che per vendicare l’assassinio del padre tese un agguato al colpevole: lo uccise, gli strappò il cuore e lo divorò. Ma possiamo escludere che avesse letto i libri della grotta. I quali peraltro potranno suscitare ben più sagge reazioni. Ne suggeriamo una: dopo aver letto gli gnostici, leggere Luciano. Un contemporaneo che seppe affrontare la stessa «epoca di angoscia» senza le illusionistiche scorciatoie di una rivelazione.