LETTURE/ Eliot, il bulldog e la lama della coscienza

- Daniele Gigli

Campagna inglese, anni trenta del 900. È qui che T.S. Eliot colloca, con "The Family Reunion" (1939), l'azione corrosiva della vita vssuta nella dimenticanza. DANIELE GIGLI

Campagna inglese, anni trenta del 900. È qui che T.S. Eliot colloca, con "The Family Reunion" (1939), l'azione corrosiva della vita vssuta nella dimenticanza. DANIELE GIGLI

1.  Campagna inglese, autunno inoltrato, anni Trenta del secolo scorso. È la scena su cui T.S. Eliot cala, con The Family Reunion (1939), l’azione orrifica e corrosiva dell’azione non agita, del pensiero non pensato, della vita lasciata vivere dagli uomini nella semi-incoscienza, in quello stato di veglia-non veglia che normalmente accompagna i nostri giorni. «Human kind cannot bear very much reality», scrive Eliot in Assassinio nella cattedrale, messo per la prima volta in scena nel 1935. Un concetto chiarissimo ai suoi occhi e carissimo alla sua pelle, al punto da tornare pari pari nel primo quartetto, Burnt Norton, pubblicato l’anno successivo, e diventare il nucleo portante di tutta l’ultima parte della sua carriera artistica.

Non che prima l’idea non ne avesse già ampiamente irrorato l’opera: ma è a quest’altezza che la ferita della finzione, della rassicurante coazione a ripetere cui abitualmente il consesso umano sembra costringersi, assume in Eliot contorni più chiari, delineandosi come una lotta costante tra la vita e la sua predizione, tra una parola vuota che impone il proprio peso morto sulle cose e una parola aperta che cerca nel rapporto con le cose il proprio senso. La lotta tra quello che gli uomini si aspettano dagli altri – o da se stessi – e la brezza spaventosa e terribile del mistero di sé.

2. Ecco Harry, allora, lord di Monchensey, che dopo otto anni torna a Wishwood – il bosco dei desideri – in occasione del compleanno di Amy, lady di roccia e madre senza marito che da anni intesse il futuro dei suoi figli e della sua tenuta. È da poco vedovo, Harry, la sua insopportabile consorte è finita in mare – suicida sembrerebbe – durante una crociera e lui, che tanto a posto non lo è mai stato, è ancora più strano di come ci si ricordasse. Giunto a casa, ecco tutti a chiedergli di dire, di spiegare, o almeno di soffrire come si deve. E forse lo farebbe, Harry, ma come farlo, come comunicarsi a un altro quando si ha la chiara coscienza di non poter essere compresi?

Voi siete gente
cui mai nulla è successo, se non un continuo urto
di eventi esterni. Avete attraversato la vita nel sonno,
mai destati dall’incubo

(The Family Reunion, parte I scena 1)

L’ha uccisa, non l’ha uccisa? Lui dice sì, ma nessuno vuole credergli, non si può, non è quello che ci aspetta da un lord di Monchensey, per strano che possa essere! Così, quella che potrebbe essere una confessione personale e una catarsi collettiva viene svilita e risucchiata in un tentativo rozzo di addomesticare la realtà; e persino la notizia dell’incidente occorso al fratello John sulla strada per Wishwood diventa l’occasione per l’ennesima discussione accademica su come comportarsi, su cosa bisognerebbe sentire e su come si dovrebbe agire di fronte alle cose. 

Si tratta ancora della battaglia tra l’essere e il dover essere, tra l’unicità dell’uomo e il modello sociale, se al rimprovero della zia Ivy di non essere sufficientemente abbattuto, di non soffrire cioè come dovrebbe, Harry oppone ancora una volta la consapevolezza gelida e conturbante della propria solitudine:

È quando non vedono nulla
che le persone sanno sempre mostrare le giuste emozioni
e per quanto magari non provino nulla
le loro emozioni sono sempre appropriate.
Loro non sanno che cosa sia essere svegli,
vivere a un tempo su piani diversi.
Io ho verso John tutti quei giusti sentimenti
che voi ritenete appropriati. Solo, non è quello il linguaggio
che ho scelto di parlare. Non voglio parlare il vostro.

(The Family Reunion, parte II scena 1)

3. Anche se ambientato quasi sempre nella società contemporanea, quello eliotiano è un teatro di parola, dal taglio antinaturalistico. Un teatro in cui si parla molto e accade poco; e dove quel poco che accade, accade sempre sullo sfondo, mentre in primo piano resta il chiacchiericcio, il brusio confuso e vagamente insulso dell’ordinario. Ed è forse questa una delle lezioni più interessanti del teatro di Eliot. Quella di un mondo che, nella sua inamovibilità, si muove; di un’impossibilità in cui, come da una crepa, entra il possibile. Harry non può essere capito né, ormai, gli interessa più esserlo. È rassegnato, sa – e ne ha ragione – che tra lui e chi ha davanti c’è una distanza esilissima ma invalicabile, una distanza che nel tempo lo ha condannato al suo mondo privato. È così per tutti, ma Harry, diversamente da chi gli è accanto, lo sa. E ne muore. 

Eppure, in questa confusa congerie di cose e di emozioni, di pseudo-dogmi e di ripetizioni, sullo sfondo, qualcosa accade. Accade che Harry venga intuito dalla zia Agatha e reso a se stesso. E che alla stessa Agatha si chiarisca il senso di tutta una vita di dolore. O che Mary l’indecisa prenda finalmente una decisione che sia una. Così, sullo sfondo, mentre nulla sembra accadere e tutto accade.

È un seme, un misero seme che il finale del dramma vedrà soffocare nella gran parte degli astanti. Ma è un seme, un’alterità che per il solo fatto di esserci è posta e perciò non più eliminabile dall’orizzonte, se anche Charles, l’ottuso Charles, si accorge stranito che la vita può riservare delle sorprese. E che la cosa, forse, non è così male:

Pensavo che la vita non potesse portarmi altre sorprese.
Ma ora ricordo che quel bull-dog della Burlington Arcade
mi ha sempre sorpreso.
Che cosa sarebbe se ogni momento fosse come quello?
Se fossimo svegli?

(The Family Reunion, parte II scena 3)





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