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Home » Cultura » PAPA/ Violante: anche la “nostra” giustizia ha bisogno del Vangelo

  • Cultura

PAPA/ Violante: anche la “nostra” giustizia ha bisogno del Vangelo

Luciano Violante
Pubblicato 8 Luglio 2014
congdon_crocifisso1R439

W. Congdon, Crocifiso (Immagine dal web)

Si torna a parlare di riforma della giustizia. LUCIANO VIOLANTE commenta la lettera di Papa Francesco al XIX congresso internazionale dell'Associazione internazionale dei penalisti

Nell’agenda politica è tornata la riforma della giustizia. Luciano Violante commenta la lettera di Papa Francesco al XIX congresso internazionale dell’Associazione internazionale dei penalisti del 30 maggio scorso e passata quasi inosservata (ndr).

Il messaggio di Papa Francesco svela le due grandi illusioni del diritto penale: che la pena, di per sé, possa riportare un ordine nella società e possa ricostruire un equilibrio tra l’autore del delitto, la vittima e la società. Coerentemente sottopone all’attenzione degli specialisti la riconciliazione tra chi ha commesso il delitto e chi lo ha subito, la vittima e la comunità, per costruire una società includente capace di superare la frattura creata dal delitto. 


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L’ umanità  cerca da sempre procedure di riconciliazione che sterilizzino i meccanismi della vendetta ed evitino di trascinare nel tempo il peso oppressivo dell’odio. 

Plutarco narra che dopo la costruzione della città che si sarebbe chiamata Atene, ci fu una gara tra Atena e Poseidone per il possesso della città. Atena donò alla città l’ulivo e Poseidone donò una fonte. Il giudice dichiarò vincitrice Atena, perché l’ulivo, a differenza dell’acqua, era una novità. Poseidone non si offese e sull’acropoli sorse un tempio comune alle due divinità. Al centro del tempio venne eretto un altare a Lete, la divinità dell’oblio, perché gli ateniesi non serbassero il ricordo di quella contesa. La sequenza offesa-conciliazione-oblio viene sostituita da un’altra sequenza, offesa-verità-conciliazione, nella vicenda di Trasibulo che nel 430 a.C. caccia i tiranni da Atene ponendo fine alla guerra civile. Aristotele riporta le condizioni della pacificazione: “Nessuno ha più diritto di ricordare i delitti commessi da un altro, a meno che non siano stati commessi dai Trenta, dai Dieci, dagli Undici e dagli ex governatori del Pireo; e neppure da questi, se essi renderanno conto del loro operato”. 


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Nella tradizione successiva questo decreto prese il nome di amnestia, cioè di non memoria. Tuttavia questo termine può trarre in inganno. L’intesa ricordata da Aristotele, infatti, non richiede l’oblio, ma il divieto di ricordare i delitti commessi dai singoli nel passato, per salvaguardare la riconciliazione tra i cittadini.

La Bibbia ci trasmette il concetto di tsedaqah, la giustizia come ricomposizione di un rapporto umano spezzato dalla violenza; la giustizia come riconciliazione, non come registrazione di un rapporto di forza.

Gesù rivoluziona i costumi del suo tempo introducendo il perdono come presupposto della conciliazione. Quando sulla croce, come riferiscono i Vangeli, chiede a Dio di perdonare quegli uomini che lo stanno uccidendo perché non sanno quello che fanno, si apre un tempo nuovo. Chi sta per essere assassinato non perdona direttamente, ma chiede a Dio di perdonare in un atto che è di umiltà, ma è anche di consapevolezza della gravità del delitto che è tanto pesante da non poter essere perdonato direttamente dalla vittima. Poi motiva la ragione del perdono, che qui non è la contrizione dell’offensore, ma la sua non consapevolezza; “non sanno quello che fanno”, dice Cristo, e quindi non sono responsabili. Il male per essere effettivamente tale dev’essere consapevole. 


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Nel cristianesimo, infatti, non è offensiva qualunque lesione dell’ordine, ma solo la lesione commessa con la consapevolezza dell’ingiustizia dell’offesa arrecata. Dare peso alla volontà dell’offensore più che all’oggettività dell’offesa rovescia tutta la tradizione precristiana, nella quale l’offesa all’ordine, si pensi alla grande tragedia greca, vale in sé indipendentemente dalla consapevolezza e dalla volontà dell’offensore. 

La pena, ci dice il Papa, non si giustifica per sé stessa, ma per la capacità di andare oltre i propri confini ricostruendo il rapporto del reo con la società; di qui la necessità di ripensare a  una pena che non sia pura segregazione, ma avvii la valorizzazione della persona del reo, attraverso il lavoro e lo studio, ad esempio, o attraverso pratiche di solidarietà. Il messaggio chiama in causa tutti noi, perché un nuovo rapporto tra il carcere e chi sta fuori del carcere richiede che la intera società sia disponibile alla riconciliazione.


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