LETTURE/ Hölderlin, il dolore non ferma la poesia

- Francesco Roat

Le poesie di Friedrich Hölderlin (1770-1843) anticipano istanze e inquietudini del '900. I suoi versi, dedicati alla natura, parlano dell'anima, della sua ansia di assoluto. FRANCESCO ROAT

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Le opere di Johann Christian Friedrich Hölderlin (1770-1843) vengono scritte a cavallo fra Sette e Ottocento, eppure la sua produzione poetica – ad eccezione di quella giovanile, ancora segnata dal classicismo (ode pindarica) e da modelli consolidati (Klopstock, Stolberg) – è ormai considerata unanimemente anticipatrice di istanze, inquietudini, forme stilistiche innovatrici assai più moderne e quasi novecentesche. Non a caso, provocatoriamente, Friederike Mayröcker ha suggerito di aprire un’antologia della lirica tedesca del Novecento giusto con la riproposta di una lirica hölderliniana, in versi liberi, del 1805: Hälfte des Lebens (“A metà della vita”) testo senza alcun dubbio estremamente innovatore: forte com’è di una felice e ancora attuale intensità immaginifico-metaforica e allusiva.

“Colma di pere gialle, / folta di rose selvagge / pende sul lago la terra; / voi, cigni soavi, / ed ebbri di baci / tuffate il capo / nell’acqua sacra e temperata. // Ahimé, dove trovo quando / è inverno, i fiori, e dove / la luce del sole / e l’ombra della terra? / Muraglie stanno / mute e fredde; / nel vento / stridono le bandiere”.

A proposito dell’attualità di una tale poesia anticipatrice, Luigi Reitani – in una nota introduttiva alla sua traduzione per i Meridiani Mondadori di tutte le liriche hölderliniane -, senza mezzi termini, sostiene che “nessun altro poeta dell’età moderna sembra esprimere nella stessa misura la tensione verso un linguaggio lirico assoluto, capace di nominare nella fragilità della parola il tutto della vita e della creazione; il dramma di un’esistenza votata alla potenza dell’arte, nella duplicità del suo fulgore e della sua vertigine distruttiva”.

E, in effetti, solo a partire dal Novecento il Nostro conobbe il pieno riconoscimento/apprezzamento che meritava e che non gli era stato ancora tributato, grazie in primo luogo alla “scuola” di Stefan George, nonché a vari altri intellettuali, tra cui spiccano i nomi di Norbert von Hellingrath (il quale curerà la prima edizione critica delle opere di Hölderlin), Peter Szondi, Heidegger e Gadamer. Per non dimenticare il contributo di illustri poeti italiani: da Ungaretti a Mario Luzi, da Montale ad Andrea Zanzotto. Fondamentale infine il contributo di Romano Guardini, e soprattutto di Luigi Reitani che in parte ha tradotto e sta traducendo tutti gli scritti di Hölderlin rifacendosi ai testi originali.

Sulla tarda produzione hölderliniana, tuttavia, (ossia sulle Turmgedichte o “Poesie della torre”) e sulla sua pregnanza poetica permangono ancora dei giudizi contrastanti, per quanto negli ultimi decenni si stia sempre più affermando la presa d’atto del peculiare valore espressivo di tali testi, che appartengano al drammatico ultimo periodo creativo del poeta, il quale, dopo aver contratto la schizofrenia, giunse a un degrado psichico talmente grave da comportare la totale perdita del Sé.

Queste liriche perciò, se non altro per quanto concerne la firma e la datazione (una ventina di queste liriche sono siglate, infatti, con il nome di Scardanelli, giacché il poeta – ormai folle – negava di chiamarsi Hölderlin. Inoltre le date poste in calce alle poesie sono del tutto assurde. Si pensi solo a quella recante l’inquietante datazione 9 marzo 1940), restano segnate dal marchio deturpante della psicosi. La loro sintassi si fa talvolta eccentrica e la strofa è a rischio d’incoerenza grammaticale; come l’ostinatezza reiterata di certe immagini può far pensare a una coazione ossessiva a ripetere. La struttura e lo stile compositivo delle Turmgedichterisultano apparentemente alquanto semplici e naif, con un ritorno all’uso della rima. Inoltre, dice bene Enzo Mandruzzato, in esse: “Sono del tutto assenti i grandi temi del passato. Anzi non vi sono temi, e neppure avvenimenti, tranne quello del ritorno delle stagioni”. Tali composizioni, a prima vista, possono apparire quindi mere poesie descrittive (spesso brevi) o al più contemplative in cui l’io, tranne in un paio di occasioni, è di fatto assente o, forse meglio, dismesso/abolito. Il soggetto – impersonale -, allorché non esprima un elemento della natura (alberi, monti, fiori, campi, luce, ecc.) è qui costituito semmai dalla formula generica: “l’uomo” – “gli uomini”) (“der Mensch” – “die Menschen“).

C’è chi, a causa del loro tono lirico orientale, ha paragonato le Turmgedichte agli Haiku giapponesi, ma io ritengo che questo accostamento sia poco appropriato, se non altro perché essi sono caratterizzati da un’assoluta concisione e schematicità che troviamo assai di rado nell’ultimo Hölderlin.

Ciò che comunque sorprende in tali poesie d’estremo nitore (verrebbe pure da aggiungere: d’estrema bellezza) è una grande levità, il respiro musicale e placido di una versificazione sobria ma intensa, essenziale ma ricca di echi, rimandi, suggestioni. Il registro talora è oracolare, però privo di saccenza alcuna. Colpisce la pacatezza/mitezza che emerge dalle strofe. Una serenità di fondo che sconcerta, se teniamo conto dello stato patologico del Nostro. Infine la peculiare struttura metrica d’estrema semplicità, ma al contempo di notevole efficacia espressiva che denota gli ultimi testi hölderliniani, consente al poeta di comunicare senza retorica o enfasi un messaggio di ritrovata quiete che commuove e consola. Quasi l’uomo lacerato dalla schizofrenia avesse davvero raggiunto o almeno presagito la Vollkommenheit, la “compiutezza” cui fa cenno l’ultima sua splendida poesia: “Die Aussicht” (“La veduta”), che chiude per sempre il canto e la vita del poeta all’insegna di una mite, inattesa illuminazione provvidenziale.





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