Ciò che sorprende maggiormente nell’inconcluso dibattito pubblico sull’adozione da parte di coppie omosessuali – riacceso in questi giorni dalla sentenza del Tribunale dei minorenni di Roma – è la latitanza di una riflessione che (re)introduca a pensare la paternità e la maternità non soltanto come ruolo familiare o sociale e come funzione biologica o psicologica, bensì anche e anzitutto come elemento di una struttura antropologica duale e come paradigma dell’umano che permette una (ri)comprensione delle dinamiche plurali del vivere personale, familiare e sociale. Ad essere in gioco nella questione della bambina di cinque anni che fissa contemporaneamente lo sguardo su due “mamme” non è primariamente un interrogativo etico o un problema giuridico, e neppure uno statuto della famiglia e un concetto di adozione.
C’è qualcosa che viene prima e sta a fondamento del resto. Lo esprimo con un interrogativo: è ancora possibile pensare il padre e la madre?
A ben vedere, in questo caso ad essere assente non è solo il padre, ma la stessa madre, perché nessuna delle due “madri” è in realtà madre. Si può essere madre solo in relazione ad un padre e si può essere padre solo in relazione ad una madre. Relazione ontologica, fondativa dell’esistenza – non meramente biologica, psicologica, affettiva – e accolta dalla libertà dell’uomo e della donna, che riconosce in questo accadimento relazionale il dispiegarsi dell’orizzonte della vita, come vocazione e come destino. Relazione data una volta per tutte (si è madri e padri per sempre se lo si è stati veramente una volta), che né la separazione fisica, né l’odio, il rancore o il disprezzo per l’altro(a), e neppure la stessa morte possono cancellare. Qui no: il riferimento alla “madre” è puramente autoreferenziale perché esclude di principio e di fatto il riconoscimento del padre come elemento coessenziale della dualità antropologica che rende possibile la figura genitoriale.
Anche nel bizzarro surrogato semantico di un discorso che diventa antropologicamente “neutro” pur di essere “politicamente corretto” – quello del “genitore A” e del “genitore B” in luogo di padre e madre – vi è la necessità di identificare con due diverse lettere dell’alfabeto ciò che, altrimenti, non sarebbe identificabile come genitore proprio per l’assenza di un referente che sia altro da sé, ma non senza riferimento a sé.
Per l’essere umano non si dà identità se non nella differenza e differenza se non nell’unità. Del resto, tutta l’esperienza – e la testimonianza che ne trasuda – dell’essere generato e del generare, dell’essere accolto e dell’accogliere, e, ancor prima, dell’essere amato e dell’amare, diventa intelligibile solo dentro alla dinamica della relazione all’altro da sé e della differenza nell’identità di sé che la presuppone.
Con il lessico più familiare, un bambino può chiamare qualcuno “papà” solo perché dice o ha detto “mamma” a una donna che lo ha generato o accolto attraverso una relazione con lui, e può riconoscersi nel rapporto con una mamma solo perché essa non è semplicemente una donna, ma quella donna che lo ha generato o accolto insieme all’uomo che chiama “papà”.
Non si costruisce una figura genitoriale dal nulla, da un’affermazione astratta che proietta sulla realtà un desiderio o una pretesa, e neppure da una sentenza che cristallizza nel diritto quello che è ancora fluido nella cultura e nella prassi. L’origine di ogni identità sorge da una differenza e non si afferma nella negazione di essa attraverso un’emancipazione dalla relazione costitutiva che la pone in essere. A dispetto delle apparenze, la consistenza dell’identità non è subordinata alla negazione, alla propria negazione o a quella dell’altro. Ogni genitore (naturale o adottivo) può dire paternamente “tu” a suo figlio solo perché dice “tu” alla donna che si rivolge maternamente con lo stesso “tu” al figlio, e viceversa. I due “tu” restano asimmetrici, senza confondersi né annullarsi a vicenda. La relazione materna e paterna manifesta un’esperienza dell’asimmetria costitutiva del vivere personale e sociale, e il padre si presenta come simbolo di alterità rispetto alla madre. Nella dinamica familiare, la figura del padre acquista una valenza metaforica assolutamente originale e insostituibile rispetto a quella della madre. Il padre, nella metafora della differenza originale e originante, diviene catalizzatore della relazionalità dell’esistenza, testimone di una gratuità dell’esistere che è al tempo stesso grazia e grazie: il padre non è gestazionalmente né nutrizionalmente necessario al figlio, meno dipendente da lui che dalla madre. Ma non per questo meno grato al padre per il suo esserci, condizione di possibilità dell’esistere della madre in quanto madre.
Il tentativo di dare stabilità educativa, sicurezza e prospettive di benessere e “felicità” ad un bambino che non può crescere insieme alla donna e all’uomo che lo hanno generato non si realizza attraverso la cancellazione della drammaticità insita nella differenza antropologica uomo-donna cui fanno riferimento la figura paterna e materna. Al contrario, solo assumendo fino in fondo questa intrinseca e irriducibile drammaticità è possibile accogliere il bisogno del bambino di crescere come figlio (si è sempre figli, anche quando si nasce o si diventa orfani, ma è bene vivere da figli).
Una società senza madre non è sinora possibile: potrebbe diventarlo con la gestazione ectobiotica, un azzardo biologico oltre che una mostruosità etica. Una società senza padre è tecnicamente realizzabile (il donatore anonimo del seme è puro strumento di riproduzione) ma antropologicamente inconcepibile, perché viene meno la condizione di possibilità del sorgere della consapevolezza del figlio come figlio e dell’uomo come fratello di altri uomini.
Se il padre è quel “tu” originario a partire da cui mi affermo come “io”, la scoperta degli altri molteplici “io” rimanda a una logica della differenza che dice filialità e fraternità.
Una società senza padre (e, di conseguenza, senza madre) è una società privata del fondamento della reciprocità e della libertà, destinata a lasciare le porte spalancate al potere, alla violenza distruttiva delle identità e delle differenze, in preda all’ideologia di una omologazione non solo culturale, ma anche fisica, psicologica e sociale. Al di là di ogni retorica e di ogni censura, questa sembra essere la sfida del nostro tempo.