“Mi interessa quello che la gente riesce a fare per risollevarsi quando è finita a terra”.
Raymond Carver (1938-1988) sapeva compendiare anche così il senso della sua avventura letteraria. La frase è contenuta in un suo lillipuziano zibaldone (Niente trucchi da quattro soldi – Consigli per scrivere onestamente, Minimum Fax) che andrebbe raccomandato in ogni scuola di scrittura (anche se Carver spiegava che il primo compito di queste scuole è di insegnare come non scrivere, per evitare di perdere tempo).
In questa antologia di interviste, intuizioni, analisi della propria ricerca, Carver offre passi memorabili che ricordano quanto possa essere decisivo l’incontro con un grande autore: “Penso che la letteratura ci possa rendere consapevoli di certi nostri difetti… che ci possa far capire cosa ci vuole per essere davvero umani, per essere qualcosa di più grande di quello che in effetti siamo, qualcosa di meglio. Penso che la letteratura possa farci capire che non stiamo vivendo la nostra vita nella maniera più piena”.
Scrivere bene non è mai stato facile, perché la bellezza è un bene arduo (beauty is difficult ha sempre ricordato Ezra Pound). E forse la nostra crisi ha complicato ancora di più la disposizione delle carte in gioco. Chissà allora che non possa essere una sfida interessante rileggere Carver, magari ripulito da qualche incrostazione.
È un autore che ha sempre camminato in una “crisi” perenne, raccontando drammi profondi (e intimi), l’incomunicabilità tra le coppie, tanto per intenderci, con anni d’anticipo rispetto ai colleghi. Carver è stato un maestro, alla sua morte il Guardian di Londra lo definì il “Checov d’America”, ma è ben lontano da quella etichetta di “minimalista” che gli andava così stretta (lui amava definirsi piuttosto un “precisionista”).
Purtroppo, tanti discepoli non impararono la lezione, capace di straordinarie epifanie (basti pensare a racconti come Cattedrale o Una cosa piccola ma buona o Da dove sto chiamando), contribuendo invece a diffondere quella letteratura ossificata e asettica che ha proliferato dagli anni Novanta del secolo scorso in poi.
Certo, la “magia” di Carver aveva davvero strumenti essenziali e quotidiani. Ma erano il trampolino per un carotaggio profondo del cuore dell’uomo. Era lui stesso a ricordarlo: “In un racconto si possono descrivere cose, oggetti comuni, usando un linguaggio comune ma preciso, e dotare questi oggetti – una sedia, le tendine di una finestra, una forchetta, un sasso, un orecchino – di un potere immenso, addirittura sbalorditivo. Si può scrivere una riga di dialogo apparentemente innocuo e far sì che provochi al lettore un brivido lungo la schiena”.
Carver è sempre stato in bilico sull’abisso. Lottò ogni giorno per realizzare il suo sogno di scrivere. Centimetro dopo centimetro, come insegna Al Pacino nel memorabile monologo di Ogni maledetta domenica.
Il principio della sua storia fu un ragazzo povero nell’isolatissimo Stato di Washington che tentava di imparare a raccontare storie con un corso per corrispondenza e che poi vinse mille “crisi” quotidiane combattendo molteplici demoni: due figli da crescere a vent’anni, lavori senza numero e sempre precari (doveva studiare e mantenere la famiglia). E, ancora, l’incontro con il “maestro” John Gardner che rivoluzionò il suo modo di pensare insegnandogli gli autori giusti (Conrad, Céline o Karen Blixen), poi il primo matrimonio in frantumi, il fallimento economico e, soprattutto, l’estenuante corpo a corpo con l’alcol, da cui uscì verso i 40 anni, era il 2 giugno 1977, per incontrare la più felice stagione della sua vita, accanto alla poetessa Tess Gallagher.
Questo è solo un trailer di una vita scorticata, ma per chi volesse approfondirla c’è la splendida biografia di Carol Sklenicka (Raymond Carver. Una vita da scrittore, edizioni Nutrimenti) definita da Stephen King, un altro che agli esordi della carriera dovette lottare contro alcol e ristrettezze economiche: “Eccellente, meticolosa, palpitante… un’inestimabile ricostruzione dell’evoluzione di Carver come scrittore”.
Come Emily Dickinson, Carver “abitò la possibilità”, vivendo la dimensione della scrittura come una grande esplorazione.
A suo modo, fu un pioniere in cerca di nuove frontiere. In quest’ottica è stato inserito da Antonio Spadaro nel canone degli autori Usa (da Jack London a Kerouac) che hanno avuto confidenza con la “frontiera”, che “in origine è da intendersi come lo spazio dove è possibile rinascere immergendosi in uno stato di innocenza primordiale e quasi adamitica. Poi prende forma una visione della frontiera come luogo irto di pericoli, perché confine tra civiltà e barbarie, ma ricco di promesse e possibilità” (Nelle vene d’America, Jaca Book).
Tra l’altro, Spadaro ha sottolineato la centralità del Carver poeta. Ed è una fortuna, perché questo versante è ingiustamente meno conosciuto. È invece significativo che Carver sulla propria tomba abbia voluto questo epitaffio: “Poet, Short Story Writer, Essayist“. Poeta, prima di tutto.
Della poesia Carver diceva: “Fondamentalmente, non mi interessa molto la poesia che parla solo di frutta e belle scenografie. Mi interessa la poesia che affronta questioni più ampie, questioni di vita e di morte, ecco, e il problema di come comportarsi a questo mondo, di come andare avanti a dispetto di tutto quello che ci accade. Perché il tempo è poco e l’acqua si sta alzando”.
Carver fu stroncato da un tumore nell’estate del 1988. Passò le ultime ore della sua vita lavorando in modo febbrile a un nuovo libro di poesie, Il nuovo sentiero per la cascata, che s’innesta nella tradizione confessional di Lowell o della Plath, ma che è soprattutto un’opera carica di tenerezza e di verità, in cui ogni verso è scritto guardando in faccia la morte.
Tess, che fu a fianco a lui in quei giorni e che lo aiutò a comporre il libro, scrisse: “Dalle prime alle ultime, le poesie sono meravigliosamente chiare, e questa limpidezza, come il dolce fragore dell’acqua sorgiva in bocca, non ha bisogno di giustificazione. Il tempo trascorso a leggere le poesie di Ray diventa subito fecondo, perché i suoi versi si concedono con la stessa facilità e spontaneità naturale del respiro”.
L’ultimissimo frammento è giustamente celebre: “E hai ottenuto quello che / volevi da questa vita, nonostante tutto? / sì. / E cos’è che volevi? / Potermi dire amato, sentirmi / amato sulla terra”.
Quando lo scrisse, il pioniere aveva lasciato dietro di sé molto buio e molti baratri, ma stava per valicare la frontiera con occhi nuovi, perché, come insegna Cormac McCarthy nella Strada, dentro sé aveva conservato il fuoco.