Giotto (di cui è aperta fino al 10 gennaio 2016 a Milano, a Palazzo Reale, la mostra “Giotto e l’Italia”, a cura di Pietro Petraroia e Serena Romano, che è riuscita nell’impresa di radunare ben tredici capolavori del maestro) è uno di quegli artisti che, se li hai visti, ne sai di più anche quando vai a fare la spesa al supermercato.
Direte che questo non è un modo scientifico per iniziare a parlare di Giotto. Avete ragione. Ma il fatto è che pochi artisti hanno mostrato e dimostrato, come lui, che il mondo non è fatto di nebbia, che la vita non è un sogno, che le cose hanno una massa e un volume, che le persone non sono puri spiriti ma sono incarnate in un corpo. E che con questo peso — perché è un peso, in tutti i sensi, ma anche qualcosa di nobile e potente — bisogna fare i conti. Giotto, insomma, insegna che bisogna essere realisti (poi bisogna anche saper sognare, ma di questo parliamo un’altra volta).
Ci voleva un artista che fosse figlio di contadini del Mugello, come era Giotto, per farcelo capire. Dunque quando uno vede i suoi dipinti (quel Cristo, a Rimini, che pesa talmente sulla Croce, che sembra debba cadere da un momento all’altro. E, infatti, se fosse stato crocifisso come appare in tutti i nostri crocifissi, cioè coi chiodi confitti nelle mani, la pelle e i nervi si sarebbero lacerati e il corpo avrebbe ceduto. I chiodi, storicamente, venivano piantati nei polsi: Giotto non lo sapeva, ma ce lo fa intuire lo stesso); quando uno vede i suoi dipinti, dicevamo, non può stare lì a discutere, come fanno i professori di storia dell’arte, su plasticismo e linearismo, sull’influsso di Cavallini e il mancato influsso di Cimabue, su cosa ha dipinto Giotto e cosa la sua bottega. Tutti approfondimenti doverosi e salutari, si intende, che però non arrivano al cuore della verità insegnata dal maestro di Vicchio. Cioè la concretezza, la tremenda concretezza della realtà e della vita.
Ma, direte voi, e allora Masaccio? E Michelangelo? E tanti altri? Certo, certo, ma Giotto viene prima, tanto che è stato definito il padre della pittura italiana, come Dante lo è stato della lingua. Cennini ha detto anzi che Giotto ha tradotto la pittura dal greco in latino, cioè è passato dallo spiritualismo dei Bizantini al terragno realismo dei Romani.
Chi ha parlato di Giotto meglio di tutti è stato appunto Dante, che era un suo coetaneo (Giotto nasce a Vicchio due anni dopo di lui, nel 1267, e gli sopravvive un quindici-sedici anni perché muore a Firenze nel gennaio 1337). Dante scrive: “Credette Cimabue nella pittura tener lo campo e ora ha Giotto il grido”. Non la notorietà, la stima, gli elogi: il grido. E c’è tutta la gloria della pittura giottesca in quella parola, ma anche tutta la sua drammaticità.
Però aveva ragione anche Berenson quando diceva: “Goditi Giotto e lascia i problemi agli altri”. Allora fate così. Approfittate della mostra di Palazzo Reale — ma se potete, andate ad Assisi, alla Cappella degli Scrovegni a Padova, a Santa Croce a Firenze; se abitate a Milano andate anche a Chiaravalle, dove hanno lavorato i suoi allievi — e godetevi Giotto: il suo disegno compatto, le sue Madonne che sembrano cattedrali, le sue figure che a occhio e croce non pesano mai meno di un quintale ma conservano sempre una assoluta nobiltà.
Perché la pittura di Giotto è sì realistica, e quindi drammatica, ma è anche una lezione di forza, di potenza, di stabilità. Giotto era davvero un “professore di energia”, come dicevano di Marinetti. Anzi, senza offesa per il poeta, lo era molto più di lui.
–
Milano, Palazzo Reale, dal 2 settembre 2015 al 10 gennaio 2016.