“L’uomo, più scontento di giorno in giorno del suo destino, a fatica gira intorno agli oggetti di cui è stato condotto a far uso”. Scrive così André Breton, proprio all’inizio del Manifeste du Surréalisme pubblicato a Parigi nel 1924. Sono passati cento anni da questa amara constatazione del fondatore francese di un movimento culturale e artistico tanto citato quanto incompreso (soprattutto in Italia), ma l’esigenza di liberare l’uomo dal destino di girare a vuoto intorno alla realtà e agli oggetti è sempre più urgente e forse disattesa. L’obiettivo di una liberazione individuale, che avrebbe dovuto andare di pari passo con la liberazione della società (molti membri del movimento surrealista furono vicini inizialmente al Partito Comunista Francese) era legato all’idea dell’automatismo psichico: questo, per Breton, esprime “il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione e al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica e morale”. Influenzati dalla psichiatria francese e dalle teorie freudiane, i surrealisti miravano perciò a “rivelare il substrato vergine dell’incoscienza”, come affermano i curatori della mostra di Mamiano di Traversetolo, unica possibilità per sottrarre l’individuo ai condizionamenti delle sovrastrutture socioculturali.
Ma davvero l’immediatezza, la deliberata rinuncia al controllo razionale, soprattutto in un campo come quello della pittura e della scultura, assicurano la liberazione dell’uomo? I surrealisti scelsero strade diverse, ricorrendo a tecniche come il frottage, il grattage e il collage, per esempio utilizzate da Max Ernst; o la rappresentazione del mondo onirico, come Yves Tanguy e Salvador Dalí. Quest’ultimo impegnato a trasporre sulla tela, con un procedimento quasi iperrealista, le sue visioni allucinatorie, come nel Mostro molle in un paesaggio angelico, cortesemente prestato dai Musei Vaticani. Il linguaggio onirico domina anche nelle incongruenze logiche di René Magritte, che nel quadro La confidence capitale esibisce una donna smembrata che contempla assorta una tavola di misteriosi ideogrammi che, con sguardo attento e concentrato, vuole forse decifrare. Ma lo stesso Magritte, nella tela L’épreuve du sommeil, sembra indicarci il momento del sonno come vera possibilità di liberazione del pensiero.
I surrealisti, infatti, abbandonano presto i dettami stretti dell’Automatismo e si aprono a strade originali, diverse per ciascuno di loro; sono interessati al sonno e al sogno come porte di ingresso verso la dimensione più piena della surrealtà. È grazie a quest’apertura che si inoltrano nella ricerca del meraviglioso, che per loro è sempre bello, una nuova forma di magia, perché sono convinti che “il surreale è la realtà che non è stata separata dal suo mistero”. Persino lo spazio urbano può diventare luogo di accesso al meraviglioso, ed è quindi naturale che la mostra alla Magnani-Rocca (che ospita oltre 150 opere) si apra con le cittadelle metafisiche di Giorgio de Chirico, che Breton e Éluard hanno sempre considerato punti di riferimento del movimento surrealista. Ammiriamo così Enigma della partenza, patrimonio della Fondazione stessa (con le famose arcate, la ciminiera e la vela sullo sfondo), o Il pomeriggio soave della Peggy Guggenheim di Venezia, ammaliati da quello sconcerto visivo per cui archi e obelischi sembrano giocattoli, mentre il pannello in primo piano con dolciumi e biscotti appare ingigantito e quasi sporgente.
La natura si mostra angosciante nell’opera Le navire perdu del fratello di Giorgio, Alberto Savinio, o magica e misteriosa in Sphinx regina di Leonor Fini, in cui un occhio minaccioso e inquietante appare d’improvviso in mezzo alla vegetazione. E non passa inosservato l’avveniristico Gli orti lunari di Fabrizio Clerici. Tutti efficaci esempi di un mondo straordinario e suggestivo, che ci lascia disorientati e insieme affascinati. Che sia questa la cifra del “surrealismo italiano”, in cui prevalgono accenti visionari e spiazzanti, insieme alle pratiche artistiche nuove di Enrico Baj? Non parrà poi “politicamente corretta” la concezione surrealista della donna, sì musa ispiratrice, ma pur sempre forse troppo vicina all’istinto e all’irrazionalità, in un’interpretazione che oggi sarebbe definita sostanzialmente maschilista. Che appare evidente nella predilezione un po’ feticista dello stesso Breton per gli accessori femminili del tempo (guanti e cappelli), come si vede in Gant de femme aussi… proveniente dalla Galleria nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma. Colpisce anche la Divinité di Max Ernst (bozzetto per La vestizione della sposa), con la sua creatura ibrida quasi mostruosa. Per contro, Leonor Fini proclama con determinazione la sua indipendenza con la coraggiosa opera Jeune femme assise sur un homme nu: una donna pensosa che domina l’uomo, ben diversa dalla sua sensuale e un po’ arcigna Arpia, da lei dipinta in un altro quadro.
La rassegna parmense non manca di evidenziare pure il ruolo della fotografia, il cui esponente di spicco Man Ray ci documenta le riunioni dei surrealisti, cercando anche di elaborare tecniche innovative.
In conclusione, se non possiamo in realtà parlare di un Surrealismo italiano vero e proprio, certamente però dobbiamo riconoscere la presenza nel nostro Paese, nelle collezioni pubbliche e private, di opere firmate dai Surrealisti internazionali, che ci dimostrano il diffuso interesse per questo movimento. E anche dalla nostra tradizione emergono artisti immaginifici e fantastici, capaci di trasfigurare la realtà, i cui quadri possiamo ammirare nella loro evoluzione fino agli anni Cinquanta e Sessanta, e anche dopo la fine del Surrealismo stesso, decretata nel 1966 con la morte di Breton.
Paradossalmente la mostra alla Fondazione Magnani-Rocca, che dovrebbe essere un inno all’irrazionalità, ci spinge a una riflessione profonda, dunque anche razionale, su un movimento tanto controverso, che nello stesso tempo ci sorprende e conquista per le prospettive inedite aperte al meraviglioso. Perché, se il surrealismo ci introduce nel mondo del contraddittorio, anche questa dimensione si rivela comunque ricca di significato. La contraddizione, infatti, può diventare la forma di pensiero che è all’origine della creatività.
— — — —
Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.