ALDA MERINI, A OTTO ANNI DALLA SCOMPARSA
Il primo di novembre di otto anni fa si spegneva Alda Merini, una delle più importanti e lette poetesse del secolo scorso non solo del panorama italiano: infatti, la scrittrice e anche aforista nata all’anagrafe Alda Giuseppina Angela a Milano il 21 marzo del 1931 è stata “tout court” una delle principali protagoniste della scena letteraria del nostro Paese interessandosi con la sua opera non solamente dei grandi temi di cui, di solito, si occupa la poesia ma “cantò” anche i cosiddetti dimenticati della società, gli indigenti e in generale anche la malattia mentale e i più remoti (e a volte spaventosi) reconditi dell’animo dell’uomo. Non è un caso che la Merini trascorse i suoi ultimi giorni di vita di quell’ottobre 2009 ricoverata all’Ospedale San Paolo del capoluogo lombardo, consumata da un tumore alle ossa e lei stessa in condizioni di indigenza e anche dimenticata da molti. Ad ogni modo, in quell’occasione l’allora sindaco di Milano, Letizia Moratti, permise che fossero celebrati i funerali di Stato per un’artista che era stata ingiustamente trascurata e da, allora, periodicamente la figura della poetessa milanese viene ricordata: dopo alcuni anni, infatti, continua ancora a riscuotere successo lo spettacolo “Alda Merini. Il Concerto” che vede Monica Guerritore portarne in scena i testi più belli, mentre di recente Il Fatto Quotidiano ne ha ripubblicato una interessante intervista che all’epoca uscì poco prima della sua morte.
IL RAPPORTO TRA POESIA E LIBERTA’
E proprio nella chiacchierata che in quel 2009 Alda Merini fece con Loris Mazzetti, giornalista de Il Fatto Quotidiano, la vincitrice del prestigioso Premio Librex Montale diede una delle definizioni forse più calzanti di coloro che, come lei, hanno una sensibilità artistica particolare: “Si nasce costituzionalmente poeti” disse la Merini, rivendicando una sorta di maggior erotismo e sensibilità, due aspetti che tuttavia nascondono nell’artista anche la sua estrema riservatezza. “Ma mai scambiare la poesia per una donazione agli altri” ammoniva la Merini, dato che a suo dire si tratta di un vero e proprio modo di essere e, ricollegandosi a uno dei suoi più celebri aforismi (“Il poeta che vede tutto viene accusato di libertà”) spiegava al suo intervistatore che è proprio la libertà il terreno elettivo della poesia e che questo spesso viene a coincidere col terreno della follia. Insomma, libertà artistica, follia e anche una sorta di ispirazione che però definisce “meccanica”, quasi volendo togliere quell’aura romantica all’atto creativo e parlando di un “mestiere”: “Sento di essere ispirata quando sono felice, ma lo scrivere poesie implica avere costantemente la morte vicina”, ovvero quella che la Merini intende come un necessario cammino di conoscenza ed ecco perché lei ha saputo coniugare sempre questi due aspetti, l’amore e anche il male di vivere e il silenzio della morte. “Sono stata sempre selvatica in questo, ma anche molto timida: non ho mai detto ‘Ti amo’ a un uomo, per ho imparato a scriverglielo”.
SUI PREMI LETTERARI E SULLE POETESSE
Dall’intervista che Il Fatto Quotidiano ripropone otto anni dopo la morte di Alda Merini emerge anche un altro aspetto che ha sempre caratterizzato la poetessa milanese, ovvero non solo quell’understatement tipico dei più grandi ma anche la “lontananza” (intesa in un’accezione fisica oltre che metaforica) dal sistema culturale basato su premi, riconoscimenti e continui accostamenti e parallelismi con altri letterari. “Non mi interessa” rispondeva infatti seccamente la diretta interessata alla domanda del giornalista che le chiedeva se sapesse di essere tra i poeti contemporanei più importanti: “Il mio editore Vanni Scheiwiller mi diceva sempre “Merini, le devo dare un grande dispiacere: ha vinto un premio” e io, anche se non ci volevo andare a ritirarlo, finivo per farmi convincere”, e quando il suo intervistatore cita i lusinghieri giudizi che di lei avevano dato di Pasolini, Quasimodo e Manganelli, ecco che la Merini insiste a dire che in se stessa non trovava valori. Gli ultimi passaggi di quell’intervista sono dedicati al rapporto con se stessa e anche sua sorella, con la quale aveva avuto molto dissidi: “Non mi sento una diversa ma il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione” sentenzia la poetessa che poi ricorda come sua sorella Anna sia stata la donna che l’ha maggiormente ispirata “nonostante sia la responsabile dei miei ricoveri”; infine, una battuta sul fatto che la poesia annoveri pochi nomi di spicco tra le donne: “La società è fatta per gli uomini, la donna intellettuale dà fastidio anche se io penso che il nostro mondo, più che di uomini, sia fatto di cretini”.