Incontrare Franco Palmieri è impattare un’esperienza lunga e multiforme, sempre tuttavia giocata nell’ambito della ricerca e della forma espressiva teatrale: quasi venticinque anni con il Teatro dell’Arca, quindici dei quali in stretta collaborazione con un maestro del calibro di Testori; e poi, intorno al 2000, un’ulteriore svolta: in giro per le piazze d’Italia, e non solo, a riproporre la suggestiva avventura della Commedia di fronte a migliaia di persone dove non sempre risulta facile distinguere chi sia il pubblico e chi gli attori. È del 2013 la sua pubblicazione per Edizioni della Meridiana, che porta il titolo Incantati dalla Commedia: un testo su Dante o — come l’autore preferisce definirlo — “per” Dante, nel quale si narra di questa esperienza così singolare e ancora tutta da scoprire.
Leggendone il percorso professionale, risulta evidente che quella di Palmieri è una personalità in continua evoluzione: non si ripete mai, pur utilizzando i medesimi strumenti e chiamando in causa per lo più i medesimi autori; una sorta insomma di work in progress, per dirla all’inglese.
E così, dopo Dante, ma senza mai abbandonarlo, Palmieri ha recentemente intrapreso la lettura teatrale di alcuni capitoli de I promessi sposi e ancora, in questo ultimo scorcio d’anno, ha inteso proporre una selezione di quattro opere — insieme a Commedia e Promessi sposi, Milosz con il Miguel Manara e Eliot con i Cori da “La Rocca” — destinate a mostrare come letteratura e poesia rappresentino davvero un “bene popolare”.
Si tratta — è lui stesso a sostenerlo — di una scelta che nasce dall’esigenza, oggi più che mai urgente, di seguire maestri reali e non immaginari, maestri incontrabili attraverso gesti, azioni, parole dette e ascoltate, prima che capite o spiegate, parole che raggiungono il cuore fino a farlo vibrare di un’imprevista quanto infallibile corrispondenza. Si tratta insomma di compagni di strada che, nel condurti per mano lungo il tracciato delle loro opere, ti sfidano costantemente: quando presumi di aver capito, di avere scoperto, di aver trovato, ecco che all’improvviso ti accorgi di una nuova ulteriore spinta, vieni assalito da un tacito disarmato stupore. Come quella donna che, al termine di una serata sui quattro capitoli dei Promessi sposi dedicati alla conversione dell’Innominato, si avvicina a Palmieri e gli sussurra: “Non mi ero mai accorta, prima d’ora, che durante quella notte, Lucia aveva dormito di un sonno perfetto“.
A dare ragione della scelta dei quattro autori sopracitati, è anche la comune esperienza della conversione: un evento che irrompe drammaticamente nelle loro vite e le cambia. L’eco di questo fatto si riverbera così nelle parole e nei suoni, nei colori e nelle armonie che accendono segrete corrispondenze fra i testi, e la parola non è più merce da consumare, quanto piuttosto suggerimento discreto capace di scavare nell’abisso del cuore domande scomode e tuttavia ineludibili. È forse per questo che, durante le serate condotte da Palmieri, il pubblico ritorna improvvisamente bambino e annusa il profumo delle parole: da estranee le riconosce familiari, da sconosciute le scopre imprevedibilmente note.
Questa esperienza si conferma positiva anche nella proposta di laboratori e percorsi formativi rivolti a educatori e studenti dove a tema è ancora una volta il rapporto tra parola dal vivo e letteratura. Si tratta, ci dice Palmieri, di una serie di tre o quattro incontri finalizzati a mostrare come la parola, nell’artista, nasca da una vita e per una vita; grazie alla lettura, essa viene in qualche misura “agita”, fino ad accadere come azione teatrale. In una società dove l’assenza delle parole si accompagna all’assenza, ancor più inquietante del “parlato”, l’esperienza di questi laboratori aiuta a scoprire come la possibilità della relazione nasca dalla realtà e non dalla fantasia, dal mondo reale e non da quello virtuale. Così, Dante mi è contemporaneo, prima che nei contenuti, nel suo essere “detto”, nel suo venire “pronunciato”, non innanzitutto nella comprensione, ma nella relazione che lui, vissuto nel 1300, è in grado di stabilire oggi con me.
Si sgombra finalmente il campo dalla nefandezza di considerare sommamente “poetica” la poesia che nulla invece ha di poetico, ma tutto possiede di reale e che proprio grazie a questo realismo ci ridesta e ci scuote, ci conquista e ci sfida: perché allora non menzionare, al riguardo, i noti versi di Rebora: quando s’eleva il cuore/ all’amoroso dono,/ non più s’inventan gli uomini, ma sono.