Per tutte le confessioni cristiane la Sacra Scrittura si divide in Antico e Nuovo Testamento: l’Antico Testamento raccoglie gli scritti che precedono e preparano la venuta di Cristo, e il Nuovo Testamento i libri che contengono la sua vita e i fatti e le parole della Chiesa primitiva. Ma che significa esattamente Testamento?
In italiano la parola ha un significato specifico che ben conosciamo: le disposizioni lasciate da una persona per l’amministrazione dei suoi beni dopo la morte. Perché dunque le raccolte dei libri della Bibbia portano questo nome? Secondo una spiegazione diffusa (la si trova facilmente anche in rete) la parola si rifà al latino testamentum, che significherebbe “patto, alleanza”. Ma si tratta di una spiegazione errata. Testamentum ha nel latino sia classico sia tardo soltanto lo stesso significato della parola italiana. Per indicare il patto c’erano a disposizione termini più usuali come pactum o foedus, e non c’era bisogno di ricorrere a una parola che ha tutt’altro valore.
La singolarità della cosa non era sfuggita neppure ai primi autori cristiani. Uno scrittore ecclesiastico, Lattanzio (circa 250-317), nella sua opera Divinae Institutiones dà questa spiegazione (IV, 20): “Mosè e i profeti chiamano Testamento la legge che era stata data ai Giudei, perché se colui che fa testamento non muore, il testamento non ha piena validità e non può neppure essere letto, perché è sigillato e segreto. Perciò, se Cristo non si fosse sottomesso alla morte, non si sarebbe potuto aprire il testamento, cioè rivelare e conoscere il mistero di Dio”. Lattanzio riprende qui una linea interpretativa accennata già dalla Lettera agli Ebrei (9, 15-17): “(Gesù) è mediatore di un’alleanza nuova, perché, essendo intervenuta la sua morte in riscatto delle trasgressioni commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che era stata promessa. Ora, dove c’è un testamento, è necessario che la morte del testatore sia dichiarata, perché un testamento ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive”.
Si tratta di una spiegazione poco soddisfacente sotto il profilo linguistico, e che sarebbe comunque incoerente per i libri dell’Antico Testamento. Bisogna fare un ulteriore passo indietro. Testamentum traduce la parola greca diatheke: questa a sua volta rende la parola ebraica berîth, che vale “patto, alleanza” in tutte le sfumature del termine. Anche diatheke significa “disposizione testamentaria” tanto nel greco letterario quanto nella lingua dell’uso corrente che conosciamo dalle epigrafi e dai papiri. Il senso di “patto” non è del tutto estraneo alla parola, ma è molto raro. Per indicare il patto in greco antico si usa normalmente syntheke. Perché i traduttori greci dell’Antico Testamento non hanno scelto la parola più comune e hanno preferito un termine in cui il valore di “patto” è secondario e inconsueto?
La risposta è incerta. Forse hanno voluto sottolineare che quello tra Dio e l’uomo non è un patto tra due contraenti alla pari, perché è il patto fra l’Onnipotente e una creatura mortale e perché ha un carattere di eternità e universalità che i patti umani non possono avere. I traduttori greci avrebbero quindi usato una parola eccezionale per mettere in risalto anche nella terminologia l’eccezionalità della situazione. Nelle versioni latine è stata ripresa la parola greca (in termini tecnici si parla di calco), anche se la resa di diatheke con testamentum non è generalizzata, perché diatheke è spesso reso con pactum o foedus soprattutto nei libri in prosa dell’Antico Testamento. Nelle versioni moderne si oscilla, e si preferisce usare saltuariamente alleanza per rendere più accessibile il contesto. Ad esempio la Consacrazione del vino nel Vangelo di Luca (22, 20) appare con le parole “Hic est calix novum testamentum in sanguine meo”: la più recente versione Cei ha “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”, e le parole nuova ed eterna alleanza ricorrono anche nella liturgia della Messa.
Il nodo linguistico si situa dunque nel momento della versione in greco della Bibbia (la cosiddetta Settanta). Come ebbe a dire Benedetto XVI nel discorso di Regensburg (2006), “la ‘Settanta’ è più di una semplice (…) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a sé stante e uno specifico importante passo della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro [tra mondo greco e giudaico] in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo”.