Tradurre un’opera come Così parlò Zarathustra di Friedrich Nietzsche è, oggi al par di un tempo, impresa da far tremar le vene e i polsi. È riuscita di recente a realizzarla Susanna Mati — a mio avviso in modo egregio — dimostrando una maestria davvero esemplare, grazie a cui è oggi disponibile ai lettori una traduzione (edita da Feltrinelli) la quale non tradisce affatto l’originale ma che si rivela fedele, puntuale, attenta a cogliere ogni nuance dello scritto, riuscendo altresì nel miracolo di far emergere tutta la poesia, la vis polemica e la verve di cui è pregno il testo nietzscheano. Per non parlare dell’eccellente postfazione all’opera — vero e proprio saggio critico — realizzata sempre dalla traduttrice che, da valente filosofa qual è, ha saputo cogliere e analizzare (cioè sciogliere) i nodi principali del pensiero nietzscheano presenti nel libro. Ma veniamo dunque ad esso.
Nel febbraio 1883 Nietzsche così confessa al suo editore E. Schmeitzner, informandolo d’aver scritto lo Zarathustra: “Si tratta di una ‘composizione poetica’, o di un quinto ‘Vangelo'”. E nell’aprile del medesimo anno il filosofo ribadisce tale formula a Mavilda von Meysenbug: “io ho sfidato tutte le religioni e scritto un nuovo ‘libro sacro’!”. Quello che è considerato il capolavoro del filosofo di Röcken si può perciò cogliere quale una sorta di contro-evangelo, proposto però da lui in modo implicito, vista anche la veste di romanzo-poema che l’opera assume. Rimane pur sempre, tuttavia, un dato non marginale: Nietzsche volle farsi alfiere dell’anticristianesimo più che porsi quale anticristo, come pure egli afferma di essere in Ecce Homo e come recita il titolo dell’omonimo saggio nietzscheano, datato 1888, che doveva inaugurare una serie di quattro libri all’insegna della “trasvalutazione di tutti i valori” di cui solo il primo fu completato.
Tornando al protagonista del capolavoro di Nietzsche, va subito detto che il suo nome ricalca quello con cui viene designata la figura centrale del mondo religioso iranico preislamico — ovvero Zarathustra/Zoroastro —, estatico cantore ma al contempo profeta, nonché riformatore cultuale e culturale. Questa precisazione solo per ribadire l’intento dell’autore di fare del suo Zarathustra il nunzio di una buona novella religiosa alternativa o, appunto, di un quinto vangelo da contrapporre ai quattro tradizionali ed in cui si ribadisce la morte di Dio (già proclamata ne La gaia scienza).
Il Dio di cui Nietzsche denuncia la scomparsa si riferisce a quello della tradizione giudaico-cristiana e, in generale, al Dio di ogni teismo; anche se la predilezione, da parte del Nostro, per Dioniso potrebbe far pensare altrimenti. In ogni caso la faccenda non è poi così scontata. Ad esempio, secondo la lettura di Hans Robert Jauss, l’affermare il decesso di Dio implica inevitabilmente che prima non poteva essere morto: prova — a suo dire — ex negativo dell’esistenza di Dio.
In Ecce Homo peraltro, il Nostro cerca di puntualizzare in cosa consista il suo sentirsi ateo, ma tale chiarimento non fa che rendere più complessa/sfumata detta umbratile delucidazione. Dopo aver dichiarato il proprio disinteresse sin dall’estrema giovinezza per concetti quali Dio o al di là, egli precisa: “Non conosco affatto l’ateismo come risultato, ancor meno come avvenimento: esso mi è congeniale per istinto. Sono troppo curioso, troppo problematico, troppo irriverente, per accontentarmi di una risposta così piattamente grossolana”.
Secondo vari interpreti del pensiero del filosofo, Nietzsche è, appunto, uomo troppo complesso/sottile per limitarsi a un mero materialismo ateo; egli si espresse in termini poetico-filosofici, giungendo a dichiarare non tanto l’inesistenza di Dio, ma la sua morte. Così, nota provocatoriamente Luigi Zoja: “Un Dio che muore e rinasce non solo non corrisponde all’ateismo, ma è una delle forme più antiche di religione”. Di conseguenza, sempre a detta del noto psicoanalista italiano, “Per Nietzsche, gridare che Dio era morto significava, paradossalmente, proclamare che il problema di Dio era tragicamente vivo“. Vivo in senso psicologico, quantomeno. E verrebbe da aggiungere: se non presente forse latente, a livello psichico, non solo in Nietzsche, ma presso tutti coloro che — secondo l’aforisma 125 della Gaia scienza — avrebbero ucciso/espunto ogni traccia divina dai loro cuori o tentato di farlo.
Visto da un’angolazione ulteriore, l’annuncio nietzscheano rispetto alla scomparsa di Dio è comunque quello di un evento inquietante. L’affidarsi a Dio comporta in effetti per i fedeli la garanzia di una sicurezza ontologica e di un caposaldo cui ancorarsi stabilmente. Il venir meno della credenza nella divinità/metafisica invece fa sì che ogni fondamento (Grund) creduto tale si riveli un abisso (Abgrund). Potremmo quindi dire che per Nietzsche risultano morti Platone e al contempo la pretesa di fondare qualsiasi metafisica, cioè la pretesa di assolutezza, di giungere a verità incontrovertibili, di potersi basare su principi universalmente validi, o su dati certi e oggettivi.
Ma quale sarebbe allora l’inedita spiritualità/religiosità di Zarathustra? L’invito che il profeta del Nostro ripetutamente fa ai suoi uditori è quello di restare fedeli alla terra, tramite una “fede” (Glauben) nella vita — che non sia però superstizione (Aberglauben) — da esprimersi tramite un sì senza se o ma nei confronti di tutto quanto l’esistenza comporti. È questo contegno una sorta di stoico amor fati — che l’auspicato superuomo (Übermensch) nietzscheano dovrebbe far proprio — indicatore d’una indubbia religiosità, analoga a quella fatta propria da molti mistici. Dice peraltro bene Ronald Dworkin che ormai “Filosofi, storici e sociologi della religione si sono espressi a favore di un resoconto dell’esperienza religiosa in cui trovasse posto anche l’ateismo religioso. (…) Perciò l’espressione ‘ateismo religioso’, per quanto sorprendente, non è un ossimoro”.
Lo testimonia lo stesso sedicente ateo Nietzsche in un frammento postumo dell’estate 1875, dove il filosofo precisa cristianamente che, a suo dire, “Religione è amore al di là di noi“. Ed in un abbozzo programmatico stilato nel 1884, dove egli nota: “Il superamento dell’uomo. Nuova concezione della religione”. Che poi l’eccentrica religiosità del superuomo — di colui che procede/tende sempre oltre se stesso, mai fissandosi/fossilizzandosi in formule esistenziali o etiche rigide e definitive — sia stata poi travisata dal nazismo, non è certo colpa del Nostro.