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Home » Cultura » Letture e Recensioni » LETTURE/ Scerbanenco, le ferite “nere” di un’Italia ricostruita troppo in fretta

  • Letture e Recensioni
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LETTURE/ Scerbanenco, le ferite “nere” di un’Italia ricostruita troppo in fretta

Domenico Bilotti
Pubblicato 21 Giugno 2017
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Milano, scoperta rete di spacciatori con clienti vip (Foto: LaPresse)

Giorgio Scerbanenco (1911-1969) è stato uno dei più brillanti e sottovalutati scrittori italiani della seconda metà del ventesimo secolo. E descrive l'Italia di oggi. DOMENICO BILOTTI

Giorgio Scerbanenco (1911-1969) è stato uno dei più brillanti e sottovalutati scrittori italiani della seconda metà del ventesimo secolo. Sperimentatore mite nel profilo pubblico, quanto indefesso su carta, scrisse note di costume, articoli di cronaca, i primissimi romanzi fantasy della letteratura di consumo, nonché volumi rosa che fanno oggi impallidire il boom attuale di quella pubblicistica ormai routinaria e priva di ogni valenza sociale. Il fatto che il suo grande successo sia legato alla narrativa poliziesca lo ha probabilmente rinchiuso, nell’apprezzamento critico-letterario, nella nicchia del genere, dove è ritenuto tra i grandi, se non il più grande, ma non in grado di stare nella scia dei narratori italiani di primo piano. Giudizio critico esiziale, quanto fondamentalmente sbagliato. 


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Nella produzione di questo italiano nato a Kiev, che per tutta la vita e suo malgrado fu considerato un esule straniero più che una “gloria nazionale” (categoria, invero, che Scerbanenco non amava), l’unico vero giallo classico è Sei giorni di preavviso (1940). Il brillante e schivo detective che pone fine all’intrigo — un enigma affascinante e complesso, degno della nascente tradizione “legal” di stampo americano — è Arthur Jelling, pensieroso personaggio al crocevia del primo Novecento, tradito dalla prima guerra mondiale e pronto a farsi affossare definitivamente dalla seconda. Il fascismo ha stretto i cordoni più del dovuto e molto singolarmente, nei romanzi che riguardano un investigatore chiamato Arthur Jelling (sei in tre anni, con una vena drammaturgica e sperimentale sempre più netta), la gente al bar è costretta a ordinare “misture”, non certo i “cocktail”, Dio stramaledica gli inglesi.


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Il personaggio più fortunato di Scerbanenco è, però, un ventennio più tardi l’altrettanto plumbeo Duca Lamberti. Tormentato medico, ha reso possibile l’eutanasia di una sofferente malata terminale (tema che Scerbanenco lascia profilare con la delicatezza di indagine dei grandi), diventerà una sorta di consulente abituale della Questura di Milano. Cultore della bellezza femminile, senza pruriti carnascialeschi, fumatore di nazionali senza filtro senza troppa convinzione, è protagonista di quattro stupende inchieste dove l’individuazione del colpevole, o dei colpevoli, non è mai condotta secondo le regole del giallo classico, semmai favorita da eventi che poco hanno a che spartire con le grandi qualità intellettuali del “segugio”. Da Venere privata del 1966 fino al testamento breve de I Milanesi ammazzano al sabato (1969), la grande prosa di Scerbanenco si squaderna: anafore, pezzi di soliloqui travestiti da dialogo, periodi lunghissimi, ma opere brevi. Scerbanenco fa l’abbecedario glaciale dell’ipocrisia negli anni Sessanta: quello che scrive cinquant’anni orsono è attualissimo oggi — mentre molti letterati degli anni Dieci e degli anni Venti, nel 1960, non avevano ormai più alcun legame concettuale con la realtà storica. 


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Racconta le prostitute, intrattenitrici adescate nella deriva, che la borghesia viziosa ha trasferito da strade e case chiuse a intriganti circoli di svago e di cultura, dove tutta la bassa forza della malavita sgomita senza piacere né entusiasmo alla ricerca del suo becero posto al sole. Ci sono le ferite di un’Italia ricostruita troppo in fretta, dove il patto costituzionale rischia costantemente di sfarinarsi, non messo alla prova dalla contestazione, pur già ai primi vagiti, ma dal perdurante senso di ingiustizia che il quotidiano tradisce. Ci sono gli operai e gli autotrasportatori. Padri di famiglia laboriosi che ancora non sanno di star diventando “operaio massa” e disoccupati del Sud che si apprestano a passare dallo status di “terrone” a quello di “sfaccendati” al soldo del crimine. 

Contende il ruolo di protagonista a Duca Lamberti una Milano quasi decadente, in bianco e nero e da passeggiata in Galleria o al Castello, ma davvero ben descritta. Città europea e capitale morale d’Italia nell’eroico e inquieto sforzo degli ultimi giusti, non certo nella società dei consumi, dei debiti, delle sale da gioco o nelle case di piacere. Una Milano costretta ad ammazzare al sabato, in ciò specchio più grande della stessa provincia di quegli anni: il crimine monta, ci dice Scerbanenco, quando la cattiveria inonda i rapporti personali. Per ammazzare, a quell’epoca, ci si faceva scudo del (poco) tempo libero a disposizione. 


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