Jason aveva un lavoro, sarà espulso per un piccolo reato. Ma in Nigeria rischia la vendetta di Boko Haram. Ora per sperare si aggrappa a un ricorso
Ci sono storie che lasciano senza parole. Riguardano persone che sembrano prese da un turbine, sbattute di qua e di là, che paiono colpite da un fato avverso che pare puntarle intenzionalmente.
Ad esempio quella di Jason. Oggi detenuto a Bollate, nato in Nigeria nel 1990. A meno di 10 anni di vita rimase orfano di madre e poco dopo, intorno al 2013, la sua famiglia è stata sterminata da un gruppo di “combattenti” di Boko Haram che avevano assaltato la Chiesa Cristiana Battista dove si trovavano. Pratica abituale, da quelle parti, nessuno ha dato peso alla cosa, nessuno ne ha parlato, non fa notizia una strage di cristiani in Nigeria: è solo una delle tante.
Jason rimane solo e qualcuno lo istrada in uno dei “viaggi della speranza” verso l’Italia, perché là c’è una comunità nigeriana che lo può aiutare. Dura quasi due anni quel viaggio, attraversando il Sahara per giungere in Libia, dove Jason fa esperienza dei “campi” di detenzione, un’altra realtà di cui si sa, ma è meglio tacere. Poi, il Mediterraneo, su una carretta che per fortuna non si rovescia. In Italia nel 2016: un altro migrante, un altro profugo perseguitato.
Riceve una discreta accoglienza, lo aiuta qualcuno, ha un permesso di soggiorno; Jason si mette a lavorare, con contratti precari che poi si stabilizzano: è dipendente di una cooperativa di servizi per la cura del verde, a Milano.
Succede qualcosa, si fa coinvolgere in un reato da suoi “amici” nigeriani, riceve una condanna – davvero mite – e si trova “ospite” della Casa di Reclusione di Bollate.
Uno tra i moltissimi immigrati che finisce nei guai. Come si diceva, il fato, un destino segnato.
C’è un passaggio obbligatorio quando un non italiano entra in carcere: lo si segnala alle autorità. E c’è un altro passaggio obbligatorio: se ne ordina l’espulsione dal territorio nazionale a causa del precedente penale. Avviene, in modo “asettico”, senza alcuna valutazione di merito.
Così Jason ha ricevuto dal Tribunale di sorveglianza la notizia della sua espulsione, che l’ha gettato nello sconforto più profondo: tornare in Nigeria dopo esserne “scappato”, lo rende inviso a Boko Haram ovviamente, ma anche al governo, perché è espatriato clandestinamente. Là vanno per le spicce: se torna “a casa”, Jason rischia la pelle.
A questo punto corre obbligo riflettere su questo tragico “destino”, che non pare affatto un cieco caso. Perché non erano “operatori del fato” i guerriglieri che gli hanno massacrato la famiglia. L’esistenza stessa della guerra civile in Nigeria non è frutto di fati avversi, ma di scelte politiche precise, di responsabilità degli ex colonizzatori e dei governi pseudodemocratici che si sono succeduti, dell’indifferenza internazionale. E sono forse “un destino” le vicissitudini che Jason ha dovuto vivere in quei due anni di viaggio, sostenuto solo dalla speranza di arrivare, quella speranza che ora è delusa? Poi, ci sono gli “amici” in Italia, che lo hanno coinvolto e travolto: destino?
E ora c’è l’espulsione. Emessa con sorprendente solerzia e velocità da quel Tribunale della sorveglianza che è spesso citato nelle cronache come oberato di lavoro, sommerso da pratiche arretrate, in cronica mancanza di personale. Il Tribunale dove le richieste dei detenuti che hanno maturato la possibilità di andare in affidamento ai Servizi sociali, o di essere ammessi “alla prova”, o di beneficiare dei permessi, giacciono inevase per lunghissimo tempo: sono decine di migliaia i procedimenti in attesa. Ebbene, quel Tribunale, con rapida mossa, senza conoscerlo di persona, senza sapere nulla del suo passato, senza nemmeno aver avuto un parere dal carcere perché il detenuto è recluso da poco tempo, lo ha espulso, cancellando la sua storia con un decreto.
No. Il destino non c’entra proprio. Non c’è un “fato avverso”. Jason è la storia di malvagità sovrapposte, di distrazioni colpevoli, di incuria, di burocrazia cieca, di adempimenti che non si curano delle persone. Da quando aveva 10 anni Jason fa esperienza del male, non del destino; incontra volontà distruttive, non sfortune.
Perché il male, dal più piccolo ai più devastanti, non è un caso. Nel 2005 Giovanni Paolo II disse: “[…] fin dalle origini, l’umanità ha conosciuto la tragica esperienza del male e ha cercato di coglierne le radici e spiegarne la causa. – Attenzione! Il male non è una forza anonima che opera nel mondo in virtù di meccanismi deterministici e impersonali. […] Il male ha sempre un volto e un nome: il volto e il nome di uomini e di donne che liberamente lo scelgono”.
Vale anche per il piccolo reato compiuto da Jason, per il quale ha senso che sia condannato alla sua piccola detenzione.
Ma ora, nella Cancelleria del Tribunale è stato depositato il reclamo contro l’espulsione, per i motivi umanitari di cui s’è detto. È frutto ancora una volta di una “speranza”: quella di vedere applicata per il riesame del decreto di espulsione la medesima solerzia usata dal medesimo ufficio nell’emettere il provvedimento. Sarà altrettanto veloce? Sarebbe ora che Jason venisse messo in grado di fare esperienze diverse.
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