I dazi di Trump possono essere un problema per una potenza esportatrice come la Germania, che ha anche difficoltà sul mercato cinese

STOCCARDA – Il mondo volteggia nel vorticante caos causato dai dazi del Presidente americano Donald Trump, criticato da molte parti, per vari ordini di motivi. In generale, i dazi possono essere considerati come una misura per limitare la competizione globale, in cui vincono solo i più forti. Se Jannik Sinner potesse duplicarsi e partecipare a tutti tornei dell’oratorio, vincerebbe sempre lui. Ma a questi tornei Sinner non può partecipare, una misura necessaria per dare spazio anche agli altri. Quando la terra era dominata dai dinosauri, i primi mammiferi riuscirono a sopravvivere perché vivevano in una nicchia ecologica dove i dinosauri non potevano entrare.



Il problema geopolitico che Trump sta cercando di affrontare è che la Cina dispone di una base industriale che rappresenta ormai il 30% della capacità manifatturiera mondiale, trend in aumento.

Questo significa che un decoupling dalla Cina oggi è molto difficile: i prodotti cinesi sono presenti in quasi tutte le catene del valore. Se questo può essere un bene per il consumatore (che risparmia), potrebbe non esserlo per il lavoratore (il cui posto di lavoro potrebbe sparire) e per il cittadino (il cui Paese potrebbe essere dipendente da un altro Stato). Posso capire la preoccupazione dei fans che l’iPhone arrivi a costare 2.300 euro, ma esiste anche la possibilità che Apple riduca il margine di profitto (30 miliardi di dollari a trimestre), riuscendo comunque a pagare le rate del mutuo.



Un altro punto oggetto di critiche è dato dalla formula per il calcolo dei dazi impliciti, ottenuta dividendo il surplus del Paese P nei confronti degli Stati Uniti per l’export dello stesso. La formula non riflette necessariamente i dazi impliciti che il Paese P impone agli Stati Uniti, e dubito che qualcuno creda a questa narrazione, anche nell’Amministrazione statunitense. È semplicemente un modo (corretto) di calcolare i dazi americani in modo proporzionale al deficit commerciale.

Si potrebbe forse fare di meglio, tenendo conto della reazione del sistema economico allo shock, ma i risultati sarebbero probabilmente piuttosto aleatori. Vedremo alla fine quale sarà il punto di caduta: sembra logico supporre che il vero obiettivo non sia la vaniglia del Madagascar, bensì appunto la Cina, cui i dazi non sono stati al momento sospesi.



È ragionevole supporre che lo squilibrio commerciale con la Cina non sia (solo) dovuto a sussidi o pratiche scorrette, ma alla forza intrinseca dell’economia cinese, che ormai rischia di vincere tutti i tornei del mondo. Sinner non è scorretto (perlomeno volendo credere alla sua versione sul caso di doping per cui è squalificato fino a maggio): è semplicemente il più forte. Come gli Usa, anche l’Europa corre peraltro il rischio di de-industrializzarsi, e potrebbe essere costretta valutare opzioni altrettanto drastiche (alcune sono già in essere).

Torniamo in Germania. Se il fronte occidentale sta scricchiolando, anche quello orientale ha conosciuto tempi migliori. Come riportato da Handelsblatt, nei primi tre mesi dell’anno il numero di veicoli venduti da Porsche in Cina è diminuito del 42%, attestandosi a poco meno di 9.500 veicoli. Per Porsche si tratta del peggior trimestre in oltre dieci anni, pandemia inclusa. La casa di Stoccarda è alle prese in Cina con una competizione brutale, soprattutto da parte dei costruttori locali, e starebbe quindi cercando di esplorare nuovi mercati in altre parti del mondo.

Lo sconvolgimento scatenato da Trump rappresenta naturalmente un pericolo per la Germania, il cui surplus commerciale è secondo solo a quello cinese. I settori dell’economia tedesca più a rischio, oltre all’automotive, sono la chimica e la meccanica. La farmaceutica potrebbe essere meno esposta, perché i farmaci potrebbero risultare insostituibili e, quindi, essere esentati dai dazi. La situazione che si sta delineando sul mercato statunitense potrebbe peraltro costituire un vantaggio per l’industria tedesca ed europea: se Sinner è fortemente penalizzato o addirittura non può partecipare al torneo, il secondo in classifica potrebbe trarne vantaggio.

Segnaliamo infine che, come osservato da James Meadway su The Guardian, la strategia “folle” di Trump potrebbe anche funzionare e non sarebbe la prima volta. Nel 1979, il governatore della Fed Paul Volcker aumentò drasticamente i tassi di interesse (fino al 19%) per combattere l’inflazione, innescando una profonda recessione e facendo aumentare la disoccupazione, in particolare nel settore manifatturiero. Nonostante la sofferenza inflitta al paziente, la cura ebbe effetto: l’inflazione fu addomesticata e dal 1983 l’economia statunitense entrò in un periodo di crescita sostenuta, consolidando il mito di Volcker tra i banchieri centrali.

Le politiche di Volcker innescarono inoltre un processo di trasformazione dell’economia statunitense, accelerando la de-industrializzazione e spostando gli investimenti verso finanza e immobiliare, gettando le basi per il boom basato sul credito dei decenni successivi. Questa trasformazione contribuì a porre in essere il sistema economico globalizzato attuale, incentrato sui consumi e sul debito statunitensi. Un modello che il 47° Presidente sta ora cercando di smantellare.

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