La presenza delle donne ai livelli decisionali delle istituzioni è diritto riconosciuto ma non applicato: ce n'è bisogno per ritrovare la strada della pace

Sulla stampa, nazionale ed internazionale, e durante le tante ore di trasmissione televisiva di questi ultimi giorni abbiamo spesso visto e sentito molte donne parlare autorevolmente degli attuali scenari di guerra. Erano giornaliste, portavoce, inviate sugli scenari di guerra, esperte nel campo degli aiuti umanitari e della cooperazione internazionale. Ma non ne abbiamo sentita neppure una che sedesse ai tavoli decisionali, laddove si disegnano le strategie e si plasma il futuro di tutti noi. Laddove potrebbe essere possibile prevenire la guerra, adottando misure diplomatiche di dialogo e collaborazione.



Eppure, la Risoluzione n. 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, adottata all’unanimità il 31 ottobre 2000, costituisce una vera e propria pietra miliare. Rappresenta un elemento fondamentale nello sviluppo dei diritti umani delle donne e costituisce il punto di partenza nell’applicazione dell’approccio di genere nel settore Pace e Sicurezza.



La Risoluzione è articolata su tre direttrici, note come le “3P” – Prevenzione, Protezione, Partecipazione – e ha dato vita ad una serie di risoluzioni particolarmente interessanti su cui riflettere ancor più in questo tempo. Anche il 2000 era un anno giubilare e la voce di Giovanni Paolo II si fece sentire alta e forte.

Sono trascorsi venticinque anni, da allora, e quella prima Risoluzione avrebbe dovuto aiutare a considerare esplicitamente non solo l’impatto delle guerre e dei conflitti sulle donne, ma anche il contributo delle stesse donne alla risoluzione dei conflitti, per ottenere una pace durevole.



Da allora sono stati fatti alcuni passi avanti, ma la strada da percorrere resta ancora molto lunga. Nel 2003, il segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan introduceva la “Zero Tolerance policy”, da applicarsi al personale militare, ai ribelli e a fortiori al personale onusiano, sia militare che civile, in caso di abusi sessuali nei confronti dei civili (donne e bambini) in aree di conflitto. E dal 2004, gli Stati-membri delle Nazioni Unite sono stati invitati a rafforzare il loro impegno, approntando specifici Piani d’azione nazionale, in attuazione di quella prima Risoluzione, che si articolava su quattro pilastri:

Partecipazione: promuovere la piena, equa ed efficace partecipazione delle donne in tutti i processi negoziali e a tutti i livelli decisionali (locale, nazionale e internazionale), volti alla prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti armati;

Protezione: difendere i diritti fondamentali delle donne così come prescritto dalle convenzioni internazionali, ed in particolare condannare ogni forma di violenza di genere in situazioni di conflitto armato o di emergenza umanitaria;

Prevenzione: incriminare gli individui che commettono violenza contro le donne, rafforzando la tutela delle donne nella legislazione nazionale e sostenendo le organizzazioni femminili a livello locale;

Ricostruzione post-conflitto: adottare una prospettiva di genere nelle azioni di assistenza umanitaria e nel trattamento di rifugiati e sfollati interni.

La vera forza innovativa della Risoluzione sta nel riconoscimento del ruolo attivo delle donne come “agenti di cambiamento”, in una prospettiva in cui le donne non appaiono solo come “vittime”, ma come risorsa essenziale sia nei processi di pace, sia negli interventi attivi nelle aree di conflitto: missioni internazionali; mediazione e negoziazione; azione umanitaria.

Ma per ottenere tutto ciò è necessario promuovere la leadership e la formazione delle donne, affinché vangano rafforzate – in maniera continuativa e durevole – le competenze delle donne leader e quelle di organizzazioni di donne delle società civile, in azioni di prevenzione, facilitazione e mediazione, a tutti i livelli, in particolare nei processi nazionali di pace e ricostruzione nei Paesi in pre, post e durante il conflitto, nonché con riguardo alla rappresentanza e alla partecipazione delle donne in ruoli decisionali apicali. La richiesta è quella di un coinvolgimento sempre più attivo delle donne a livello apicale.

A 25 anni di distanza da quella prima Risoluzione ONU, come è facile constatare in questi giorni, c’è ancora moltissimo da fare e l’ostacolo rappresentato da quel famoso tetto di cristallo, che impedisce alle donne di raggiungere posizioni apicali, è lungi dall’essere abbattuto.

Eppure, abbattere quell’ostacolo potrebbe essere un ottimo investimento del nostro tempo, perché accanto alla supremazia tecnologica, militare, economica e strategica, ci sia anche una supremazia umana, fondata sui diritti umani, troppo spesso calpestati, prima durante e dopo i conflitti.

Diritti umani da difendere anche sul piano relazionale ed affettivo, con quella intelligenza umana che non potrà mai essere soppiantata da nessuna intelligenza artificiale, per sofisticata che sia. A cominciare dal valore della vita, della libertà, della dignità personale e del rispetto per la propria storia e le proprie tradizioni: tutto un insieme di valori su cui si fonda la relazione di cura. Quella indispensabile capacità di prendersi cura degli altri a livello personale e sociale, nazionale ed internazionale, così importante da aver generato una nuova economia: la care-economy.

Abbiamo bisogno di pace, di una pace disarmata e disarmante, come ha detto Papa Leone XIV affacciandosi per la prima volta dall’alto di San Pietro, spiegando come la pace includa la serenità interiore, l’armonia nelle relazioni, la giustizia e la cooperazione tra le nazioni, ed è universalmente considerata un diritto umano fondamentale. Essenziale per lo sviluppo e il benessere di tutti. Non a caso la sua assenza porta a conseguenze negative in tutti gli ambiti della vita.

Ma la via per la pace sembra essere sempre più faticosa e richiede da tutti una difesa incessante dei diritti umani di tutti gli uomini, nessuno escluso. Così si esprimeva, in occasione della II Giornata internazionale della Pace, il primo gennaio del 1969, Papa Paolo VI in un documento che, a distanza di 60 anni, conserva ancora la sua straordinaria attualità: La promozione dei diritti dell’uomo, cammino verso la pace.

Papa Montini indirizzò questo documento a tutti gli uomini di buona volontà, a tutti i responsabili della storia di oggi e di domani; a coloro che guidano la politica; a coloro che contribuiscono a creare su molti temi l’opinione pubblica, a quanti si occupano di orientamento sociale, di cultura, di scuola.

A tutti ribadiva in modo forte e coraggioso che la Pace è un dovere: “Affinché all’uomo sia garantito il diritto alla vita, alla libertà, all’eguaglianza, alla cultura, al godimento dei beni della civiltà, alla dignità personale e sociale, occorre la Pace, perché, dove la pace perde il suo equilibrio e la sua efficienza, i diritti dell’uomo diventano precari e compromessi; dove non vi è Pace il diritto perde il suo volto umano… dove si esercitano la discriminazione, lo schiavismo, l’intolleranza – non vi può essere vera Pace”.

Affermazioni forti che aiutano a capire quanto possa essere difficile resistere alla tentazione della guerra, quando ci troviamo davanti ad una sistematica umiliazione dei diritti umani. Sempre più necessaria appare allora la partecipazione delle donne nei processi di pace, in particolare nelle attività di peacemaking, peacekeeping e peacebuilding, per la realizzazione di una pace inclusiva e sostenibile, che cominci con la prevenzione della guerra e poi si sviluppi nelle attività di assistenza ai rifugiati, disarmo, smobilitazione e reinserimento, nel settore sicurezza, nella mediazione e nella negoziazione degli accordi di pace.

Basta vedere le immagini che ogni giorno giungono da Kiev, da Gaza, e fino all’altro giorno da Tel Aviv o da Teheran per capire quanto sia potente l’azione di distruzione e quanto sia necessario prevenire ulteriori tragedie distruttive, infondendo una nuova e diversa sensibilità, in un clima di pace che curi, che sani, che ricostruisca e restituisca dignità ad ogni uomo e ad ogni donna, a cominciare dalla sua casa, andata in macerie.

E se c’è una cosa tipicamente femminile è proprio la cura della casa, della propria casa. E di donne in gamba, molto in gamba, vere leader, ce n’è ovunque; occorre solo scoprirle e valorizzarle, lasciando loro la possibilità di cambiare strategia, anche radicalmente se è necessario.

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