L'Ue vuol raddoppiare i dazi sull’acciaio cinese e dimezzare la quota di importazioni esenti: una mossa molto rischiosa

L’Unione europea si avvia a rivoluzionare la propria politica commerciale in materia di acciaio. Ieri la Commissione, infatti, ha proposto di raddoppiare i dazi sull’import di acciaio e di dimezzare la quota di importazioni esenti. Il Commissario per l’industria, Stephane Sejourne, ha spiegato che l’Europa vuole più produzione locale, più crescita economica e più protezione per la propria industria.



A valle dei nuovi dazi Bruxelles spera anche di aprire un nuovo tavolo di negoziazioni con gli Stati Uniti; l’accordo firmato a fine luglio escludeva l’acciaio europeo che attualmente subisce un dazio del 50%. L’Europa auspica, dopo l’annuncio di ieri, di ottenere un regime più favorevole.

La novità di questi giorni è “europea”, ma il contesto in cui è maturata è molto americano. La sovracapacità produttiva cinese, che non può più scaricarsi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, sta investendo l’Europa non solo nel settore dell’acciaio. Le importazioni dalla Cina di prodotti tessili verso l’Europa nel primo semestre dell’anno sono aumentate del 20% mettendo sotto pressione l’industria continentale.



La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina investe l’Europa e la obbliga a trovare un nuovo equilibrio con la potenza asiatica. Più in generale il protezionismo e la rottura delle catene di fornitura globali determinano la fine del modello economico europeo basato sulle esportazioni e la certezza di poter importare sempre tutto in qualunque momento a costi competitivi.

I dazi europei non rimarranno senza risposta esattamente come non sono rimasti senza risposta quelli americani. La Cina ha reagito stringendo i controlli sulle esportazioni di terre rare e di altri prodotti su cui negli ultimi anni ha costruito una posizione di leadership. Alla virata di Bruxelles, soprattutto se segna una discontinuità anche per il futuro, corrisponderà una contro reazione. Anche l’Europa dipende dalla Cina, e da altri Paesi, per alcuni suoi settori; uno su tutti, non è il solo, è quello delle tecnologie per la “transizione”. L’Europa quindi deve decidere quale rapporto avere con i possibili partner commerciali per tutelare la sua industria.



La competitività industriale dell’Europa non può dipendere dai dazi applicati a un singolo settore, ma è un processo complessivo che parte dal costo delle materie prime e dell’energia, che include il grado di libertà lasciata alle imprese e che passa per i rapporti con i partner commerciali. L’Europa, che è già in guerra con la Russia, rischia di avviarsi verso un conflitto commerciale con la Cina e questo è un problema serio. Un rapporto conflittuale con la Cina rischia di esporre le famiglie europee a un rincaro di costi per cui non c’è soluzione nel medio periodo.

C’è poi un secondo rischio che è quello di ritrovarsi senza potere negoziale nei confronti dell’America da cui l’Europa dipende per le forniture energetiche e per le esportazioni. Non è chiaro, per esempio, quale potere negoziale possa avere l’Italia nei confronti di Washington, per raddrizzare i dazi sulla pasta, se brucia il rapporto con la Cina e dipende dall’America per il gas con cui gli italiani accendono la luce.

L’unica alternativa alla strada che rischia di intraprendere l’Europa è quanto sta provando a fare la Spagna di Sanchez. Madrid riconosce la “leadership tecnologica” che la Cina ha raggiunto in alcuni settori e si comporta di conseguenza facendo aprire a Pechino fabbriche di batterie elettriche sul proprio suolo e continuando a importare la componentistica, “sensibile”, per le telecomunicazioni. Questo significa aprire un fronte con Washington.

L’Europa deve decidere se può permettersi la stessa politica americana e in caso affermativo cosa può fare per limitarne i costi. Se l’Unione europea sbaglia i conti il rischio è di mancare il rilancio industriale e nel frattempo imporre alle proprie famiglie costi molto più alti.

La prima urgenza è abbassare i costi energetici senza gravare sui bilanci pubblici e assicurarsi fonti il più possibile “sovrane”. L’altra è un maggiore protagonismo in politica estera e nei rapporti commerciali che non possono replicare passivamente quelli americani. Non fosse altro che per la diversa posizione geografica, la mancanza di risorse naturali, i problemi dell’integrazione europea e tre decenni di deflazione competitiva.

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