Dopo la lettera di Trump all’Ue, Giorgia Meloni lascia lo scontro a Macron e sceglie la trattativa, proprio com chiedono i nostri settori produttivi
L’indizio rivelatore di una tensione che si taglia con il coltello sta nel comunicato che di domenica sera arriva da Palazzo Chigi. Serve a far sapere che il governo è al lavoro sul tema dei dazi, in stretto contatto con la Commissione europea “e con tutti gli altri attori impegnati nella trattativa”.
Serve soprattutto a ribadire che per Giorgia Meloni va evitato il muro contro muro, perché “una guerra commerciale interna all’Occidente ci renderebbe tutti più deboli di fronte alle sfide globali che insieme affrontiamo”.
Il timore, fondato, è quello che qualcuno intenda dare il via a uno scontro senza quartiere. Il maggiore sospettato è la Francia, specie dopo il suo annuncio di un raddoppio delle spese militari da qui al 2027 perché “mai, dal 1945, la nostra libertà era stata minacciata fino a questo punto”.
E se qualcuno pensa che accostare spese per la difesa e dazi sia come confrontare mele e pere, si sbaglia di grosso. Perché è evidente che Macron voglia dimostrare a Trump di non avere paura della richiesta ai Paesi NATO di portare al 5% le spese militari, così da poter fare il muso duro nella trattativa sui dazi. Perché nei rapporti transatlantici oggi tutto si
Meloni non ha intenzione di seguire Macron su questa strada. E forse neppure le capacità economiche per farlo, visto lo stato del nostro debito pubblico, sempre sotto la lente europea.
In più è l’intero mondo produttivo a premere con la massima forza affinché si eviti la guerra delle tariffe. Se a dazi si risponde con controdazi, saranno le aziende europee a pagare un conto assai più salato di quelle americane.
Da Palazzo Chigi sin dal primo momento è partito l’invito a non farsi prendere dal panico e a sfruttare tutto il tempo che rimane da qui al primo di agosto. “L’Europa – è stato ieri sera il messaggio della premier – ha la forza economica e finanziaria per far valere le proprie ragioni e ottenere un accordo equo e di buon senso. L’Italia farà la sua parte. Come sempre”.
Giova ricordare, a scanso di equivoci, che l’UE è tenuta ad una politica unitaria solo quando si tratta di imporre dazi ad altri Paesi. Quando invece è l’UE ad essere destinataria dei dazi – come in questo caso –, nulla vieta di arrivare a trattative diversificate. Ad ammetterlo, il 27 febbraio scorso, fu il portavoce della Commissione europea per il commercio. “Tecnicamente è possibile che gli Stati Uniti decidano dati diversi per i vari Stati dell’UE” disse Olof Gill. Questo devono ricordarselo tutti, anche l’opposizione che rumoreggia, rinfacciando alla premier la sua vicinanza con l’inquilino della Casa Bianca.
Proprio per questo ha ancor più senso la moral suasion che Meloni può fare. Il pressing su Bruxelles è già cominciato. Perché non è secondario come i negoziatori europei si muoveranno, se le mosse saranno ispirate dal pugnace Macron, o dal più cauto cancelliere tedesco Merz. Con un occhio alla tendenza dello spagnolo Sánchez di smarcarsi da tutti gli altri europei.
Del resto, proprio alla vigilia della lettera di Trump, da parte italiana trapelava preoccupazione per bozze in cui il nostro agroalimentare pagava un prezzo più alto delle industrie francesi (e pure tedesche). Su cosa cedere, perché su qualcosa bisognerà cedere, passa tutta la differenza del mondo. A un rapporto transatlantico quasi senza dazi nessuno immagina si possa tornare, almeno con Trump presidente.
Meloni non ha scelta: deve ascoltare gli imprenditori più votati all’export verso gli States. Deve spingere von der Leyen a tornare al tavolo, e poi vigilare sulle concessioni. Anche se il mercato statunitense vale “solo” il 10% del nostro export, rinunciarvi in tutto o in parte costituirebbe un danno economico gigantesco.
Per cominciare, sia dagli industriali che dall’agroalimentare viene la richiesta di premere sull’Unione Europea per eliminare quelle regole autoimposte che stanno frenando l’economia continentale. In cima alla lista il Green Deal, con la svolta elettrica che appare sempre più un regalo all’automotive cinese. Ma è tutta la burocrazia comunitaria a essere sul banco degli imputati. A situazioni eccezionali, risposte eccezionali, via i limiti interni, e di corsa, per non morire d’Europa. Sarebbe un suicido.
Dalle parti di Palazzo Chigi la pressione del mondo economico si avverte distintamente. Non può lasciare indifferenti. Meloni non ha scelta: la linea non può che essere quella di trattare sino all’ultimo minuto. Lasciando le rappresaglie commerciali a qualcun altro.
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